Dove il crepuscolo scorre via cancellando statue
Buttare giù le statue serve a elaborare la Storia?
Oppure è un tentativo di cancellarla?
O, ancora, una inconsapevole rimozione del proprio Passato di una generazione che vive in un lungo Presente?
In un recente articolo pubblicato su Jacobin.Mag (poi tradotto in italiano su Jacobin Italia e in francese su Mediapart), lo storico Enzo Traverso contesta chi, come Emmanuel Macron o Boris Johnson, accusa i manifestanti che abbattono i monumenti di proprietari di schiavi e di autori di genocidi di voler cancellare il passato; Traverso sostiene invece che queste azioni stanno portando a un esame più attento delle figure che questi monumenti celebrano, permettendo di raccontare la storia dal punto di vista delle loro vittime.
Se un gesto dal forte valore simbolico come l’abbattimento o il danneggiamento di una statua potesse stimolare una rilettura critica del passato sarebbe un risultato, credo, inaspettato dagli stessi autori dell’iconoclastia, ma io penso che questa rivisitazione della Storia non sia avvenuta nella maggior parte dei casi citati da Enzo Traverso.
Il fatto che questi gesti siano stati compiuti nel corso e, per così dire, a margine di imponenti manifestazioni contro il razzismo inducono a sospettare che tali azioni fossero soprattutto volte - proprio per la loro forte valenza simbolica - ad attirare l’attenzione dei media (cosa puntualmente avvenuta).
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Prendo spunto da questo verso di Neruda [1] per commentare un fatto ancora d’attualità.
Nei giorni successivi l’uccisione di George Flod a Minneapolis e di Rayshard Brooks ad Atlanta, il movimento BlackLivesMatter ha organizzato manifestazioni di protesta in tutte le maggiori città statunitensi. Manifestazioni si sono tenute anche in molte città europee e, in alcuni casi, si è dato vita a nuove forme di protesta: la distruzione o il danneggiamento delle statue di personaggi eletti a simbolo dello schiavismo o del razzismo. Così, a Minneapolis in Minnesota e a Richmond in Virginia sono state abbattute le statue a Cristoforo Colombo, passato da eroe celebrato dalle minoranze italiane e irlandesi nel Columbus Day a primo artefice e anticipatore, per il trattamento riservato agli indigeni dall’esploratore genovese nelle sue spedizioni, del genocidio dei nativi americani e della tratta degli schiavi deportati nelle piantagioni americane.
A Bristol i manifestanti hanno divelto e poi gettato nelle acque del porto inglese la statua dedicata al controverso mercante Edward Colston, schiavista e filantropo vissuto a cavallo fra Seicento e Settecento.
A Londra, durante una manifestazione di protesta contro il razzismo e la violenza della polizia americana è stata sfregiata la statua dedicata a Winston Churchill, con cartelli appesi al monumento e la scritta “era un razzista” tracciata con una bomboletta spray alla sua base.
In Italia, dove normalmente le proteste sono più tiepide e quello violente meno partecipate, ci si è limitato a danneggiare nottetempo con della vernice rossa, a opera di attivisti dei centri sociali, la brutta statua dedicata a Indro Montanelli in un giardino milanese.
Lo storico Enzo Traverso è uno dei più recenti partecipanti al dibattito accesosi sulla distruzione o sul danneggiamento delle statue, iconoclastia in termine tecnico, un dibattito che si divide fra chi rivendica l’azione come espressione della rabbia per il razzismo che pervade le società odierne e della consapevolezza che le sue radici risiedano nel passato schiavista, segregazionista e colonialista che accomuna molti Paesi occidentali; chi la liquida come un tentativo di cancellare il Passato e chi difende le statue come opera d’arte e testimonianze del nostro passato; c’è stato chi, infine, ha minimizzato la questione, polemizzando con chi si indigna oggi, ma ha invece taciuto (o condiviso) la distruzione delle statue di tiranni - come Saddam Hussein nel 2003 in Iraq, Enver Hoxha nel 1991 in Albania, Nicolae Ceauşescu nel 1989 in Romania - dopo la loro caduta.
A mio avviso, l’iconoclastia è sempre una rimozione violenta di un passato che appartiene anche - direttamente o indirettamente - ai suoi autori. Una rimozione che consente spesso di non fare i conti con il proprio passato. Far diventare un personaggio del passato il capro espiatorio cui attribuire ogni colpa, il vaso delle nequizie e il simbolo primigenio dell’ingiustizia sovente serve ad attribuire all’esterno responsabilità che, più o meno inconsapevolmente, condividiamo nel nostro quotidiano o nella nostra storia.
Posso comprendere, ma non per questo giustificare, l’impulso liberatorio che - all’indomani della caduta di un regime - spinge il popolo oppresso a distruggere i simboli che celebravano il loro oppressore, come nei casi succitati, ma… Mi rimane il dubbio di quanto ci sia di autentico nell’esprimere il sollievo di non essere più soggetti agli abusi e ai crimini di un dittatore. Per esempio, mi chiedo quanti delle decine di migliaia di italiani che, all’indomani del 25 luglio 1943, scesero in piazza per festeggiare e distrussero i tanti busti di Mussolini presenti in ogni città erano davvero antifascisti e da quando. Quanti lo erano fin da quando il regime, con l’omicidio di Matteotti nel 1924, rivelò il suo carattere intimamente autoritario? Quanti lo erano quando, nel 1938, furono emanate le famigerate leggi razziali? Quanti lo erano il 10 giugno del 1940, quando milioni di italiani risposero con giubilo alla sciagurata entrata italiana in guerra? Quanti piuttosto lo erano diventati allorché quella guerra, immaginata come rapida e vittoriosa, era diventata sofferenza e minaccia quotidiana delle loro vite?
Non a caso in apertura c’è l’immagine dell’abbattimento della grande statua di Saddam Hussein a Bagdad: telecamere e fotocamere immortalarono la scena della folla che assisteva alla simbolica caduta del tiranno, ma l’inquadratura era volutamente stretta e non inquadrava chi materialmente aveva pianificato l’abbattimento: l’esercito americano (è un suo mezzo militare che divelle la statua) che aveva radunato per l’occasione una folla di iracheni al fine di trasmettere al pubblico dei media il sostegno popolare al loro intervento.
Anche sull'iconoclastia che accompagni un movimento di massa ho qualche dubbio: è vero che l'abbattimento delle statue di Colombo è avvenuto nell'ambito di grandi e partecipate manifestazioni dai contenuti anche rivoluzionari (soprattutto quella di Minneapolis), ma penso che tale distruzione non fosse il fine e neppure il mezzo per raggiungere il fine, ma solo l'estemporanea azione di una frangia dei manifestanti. Il fine rivoluzionario - sembra raggiunto - era denunciare la violenza razzista della polizia della città e la decisione del consiglio comunale di “demolire” il dipartimento di polizia per costruirne uno nuovo è il risultato concreto raggiunto, in cui il ruolo giocato da Cristoforo Colombo non è stato essenziale.
Alla liberatoria violenza popolare sui simboli di una dittatura caduta preferisco di gran lunga la loro rimozione da parte del nuovo regime che, qualunque sia la sua caratura democratica, comunque li sostituirà con altri, celebrativi di se stesso.
Anche in questo caso, però, la rimozione può essere un tentativo revisionista di riscrivere la Storia per adeguarla alla politica dominante attuale. Recentemente l’amministrazione comunale di Praga - guidata dal Partito Pirata e da due liste civiche centriste - ha rimosso la statua del generale russo Ivan Stepanovič Konev che, con le sue truppe, aveva liberato la città dai nazisti alla fine della seconda guerra mondiale, intendendo sostituirla con una che genericamente ricordasse la liberazione di Praga. Il problema è che la nuova statua dovrebbe essere dedicata all’Esercito russo di liberazione, una formazione antisovietica e collaborazionista durante l’occupazione nazista capitanata dal discusso generale ceco Andrej Andreevič Vlasov, che solo con i russi ormai alle porte avevano impugnato le armi contro i loro alleati.
Perché, sempre a mio avviso, la distruzione di statue di tiranni (ieri) o di negrieri e razzisti del passato (oggi) non può essere giustificata dalla rabbia, che non è mai un’attenuante di un gesto violento.
Chi imbratta la brutta statua di Montanelli per stigmatizzare il suo aver “sposato” nel 1935 in madamato una dodicenne eritrea trasformata in “animalino docile” dal cattivo odore “dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli” lo fa certamente per denunciare un atto ignobile mai ripudiato e sempre minimizzato dal giornalista, ma - seppure in modo più o meno consapevole - distoglie l’attenzione da crimini ben più efferati di cui sono stati responsabili (o complici silenti) gli italiani: per esempio l’impiego in Etiopia dell’iprite e di altre armi chimiche proibite per accelerare la resa delle armate del Negus o lo sterminio di duemila monaci e diaconi cristiani nella città conventuale di Debrà Libanòs come rappresaglia dell’attentato al maresciallo Graziani ad Addis Abeba.
Più che al pedofilo e stupratore Montanelli, mi sarebbe piaciuto che lo sdegno venisse rivolto verso il generale Pietro Badoglio, che suggerì a Mussolini l’utilizzo del gas (e un decennio dopo, con il suo ambiguo comunicato sulla firma dell’armistizio, espose migliaia di soldati italiani alla rappresaglia tedesca), e verso il maresciallo Rodolfo Graziani che ordinò materialmente i bombardamenti aerei con bombe riempite di iprite e fosgene e il massacro di Debrà Libanòs.
Né Badoglio né Graziani furono mai processati per questo crimine e per decenni rimase intonso il mito degli italiani “brava gente”. Un recente articolo di Mariangela Mianiti su Il Manifesto ha ricordato che solo da poco più di un ventennio l’apertura degli archivi ha consentito a storici come Angelo Del Boca, Matteo Dominioni o Simone Belladonna di squarciare il velo su questi crimini rimossi del colonialismo italiano.
Per buona parte del XX secolo queste verità sono state celate o addirittura negate. Le decine di migliaia di civili libici uccisi durante la repressione della resistenza guidata da Omar al-Mukhtār, repressione operata da Graziani nel 1931 [2], furono per decenni nascoste all’opinione pubblica italiana, tanto che Il leone del deserto, un film del 1981 dedicato ai crimini commessi dagli italiani (che segregarono in campi di concentramento la popolazione beduina per isolare la resistenza libica), con Anthony Quinn nei panni del capo della resistenza e Oliver Reed in quelli del generale italiano, non fu mai distribuito in Italia (fu trasmesso una sola volta, nella versione inglese sottotitolata in italiano, sul canale satellitare Sky nel 2009, in occasione della visita in Italia dell’allora leader libico Gheddafi).
Altra cosa è ciò che è successo a Bristol, dove la comunità caribica cittadina da anni protestava per il fatto che Edward Colston fosse presente un po' ovunque in città: Bristol infatti gli ha dedicato negli anni decine di edifici, istituzioni, enti di beneficenza, scuole, club sportivi, pub, società e strade; inoltre la sua figura di filantropo viene commemorata durante le processioni e le funzioni religiose (solo nel 2017 una chiesa battista si rifiutò di onorarlo a causa del suo passato schiavista), mentre i bambini delle scuole sono soliti rendergli omaggio durante le funzioni. La sua statua si ergeva nel centro della città, con la targa che recitava: "in memoria di uno dei figli più virtuosi e saggi della città".
Il fatto che non sia mai stato chiarito quanto Edward Colston fosse stato davvero schiavista (aveva avuto azioni nella Royal African Company da cui certamente aveva ricavato profitti, anche se non quantificabili) ovvero un filantropo, come invece riteneva la maggior parte della popolazione bianca di Bristol non sminuisce la reale portata del gesto.
La rivisitazione critica di Colston ha una storia lunga un ventennio soprattutto nella popolazione nera di Bristol: per anni il gruppo musicale locale dei Massive Attack si è rifiutato di suonare al Colston Hall, finché nel 2017 l’amministrazione comunale ha accettato di eliminare il nome dello schiavista; nel 2018 - su pressione del Countering Colston Campaign Group che riteneva la statua di Edward Colston a Bristol, con le parole di uno dei suoi aderenti, il poeta Miles Chambers: "un costante richiamo alla sua disumanità" - il Comune ha sostituito la placca del monumento con una che riconosceva e faceva conoscere al popolo il ruolo di Colston e di altri abitanti della città nella tratta degli schiavi.
La distruzione della statua di Colston da parte della componente di colore della città inglese non è stata dunque un episodio dettato dalla rabbia del momento, ma - aldilà del gesto simbolico - un’ulteriore tappa di un percorso volto a convincere le istituzioni e i cittadini a ripercorrere la loro storia e riconoscere il ruolo di Bristol nella tratta degli schiavi e nei crimini del colonialismo.
Un percorso che potrei definire di contestualizzazione e recupero del proprio passato.
All’iconoclastia e anche alla rimozione delle statue, forma edulcorata di rimozione, infatti preferisco la contestualizzazione che, per me, è l’unico strumento che consenta di conoscere il passato per comprendere il presente.
Preferisco ciò che è stato fatto a Bordeaux, grazie all’impegno dell’attivista franco-senegalese Karfa Diallo, dove l’amministrazione comunale ha sostituito le targhe delle strade dedicate a cittadini che nel passato si erano macchiati di crimini razzisti o schiavisti con altre che illustrano chi fossero davvero questi personaggi.
Solo denunciando il razzismo di ieri possiamo comprendere la pervasività del razzismo nella nostra vita quotidiana oggi.
Vorrei approfondire questo concetto, prendendo a prestito le parole di un grande storico dei nostri giorni, Eric Hobsbawn. Nella prefazione della sua ultima raccolta di saggi Fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identità (anche se mi piace ricordare l’efficace definizione di “tempi spezzati” del titolo originale Fractured Times. Culture and Society in the Twentieth Century) Hobsbawn ha scritto che il suo libro riguarda “un’epoca della storia che ha perso l’orientamento e che, nei primi anni del nuovo millennio, guarda avanti, con più ansiosa perplessità di quanto io ricordi nella mia lunga vita, senza una guida e senza una bussola, a un futuro inconoscibile.” Nel 2012, quando scriveva queste parole, anche l’Italia e l’Europa mostravano, ogni giorno, le conseguenze della grave crisi economico-finanziaria, sociale, nonché culturale - a lungo sottostimata, quando non negata - avviatasi intorno al 2008 e che tuttora sta squassando l’Europa, ulteriormente aggravata dagli effetti della pandemia. Le parole di Hobsbawn sull’inconoscibilità del Futuro da parte di chi sta vivendo questo Presente sono oggi di grande attualità ed evidenziano, in modo semplice e chiaro, una della caratteristiche peculiari della civiltà del nostro mondo attuale: vivere in un lungo Presente, nel quale il Passato appare di scarso interesse e il Futuro è opaco o ridotto a una proiezione “breve” del nostro contemporaneo.
La necessità di stabilire un dialogo fra Passato e Presente è, ancora una volta, ben spiegata da Hobsbawn nel suo libro più famoso, Il secolo breve - 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi (The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991): “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.” [3]
[1] verso finale della poesia di Pablo Neruda Hemos perdido aun este crepúsculo, tratto dalla raccolta Veinte poemas de amor y una canción desesperada (1924). Il verso originale è: “hacia donde el crepúsculo corre borrando estatuas.”
[2] per questi crimini Rodolfo Graziani è stato soprannominato “il macellaio del Fezzan”, la regione desertica abitata dai beduini deportati. Nel 2012, il Comune di Affile ha addirittura dedicato a Graziani un sacrario nel parco di Radimonte che ancora oggi, nonostante lo sdegno espresso dall'opinione pubblica italiana e internazionale, è meta di pellegrinaggio di nostalgici del fascismo.
[3] nel libro c’è anche un gustoso aneddoto della sua esperienza di docente all’università: “chi, come me, ha dovuto rispondere alla domanda mossagli da un intelligente studente americano, se la locuzione seconda guerra mondiale significasse che c’era stata anche una prima guerra mondiale, è ben consapevole che non si può dare per scontata la conoscenza dei fatti anche più elementari della storia del Novecento”.