Un altro giorno della memoria: il rischio della falsificazione storica

 


“Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.

Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. Mnié klocetsia iestj, (Vorrei mangiare) dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. Spaziba, (grazie) dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. Pasausta, (Prego) mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi.”

Così Mario Rigoni Stern descrive ne Il sergente nella neve l’inizio della giornata del 26 gennaio 1943, durante la ritirata degli eserciti tedesco, ungherese e italiano dopo il fallimento dell’Operazione Barbarossa, cioè l'invasione dell'Unione Sovietica da parte della Germania nazista e di alcuni suoi alleati.

Il 26 gennaio 1943 è la data della battaglia di Nikolaevka, dove l’esercito dell’Asse in caotica rotta venne accerchiato dalle truppe sovietiche e riuscì ad aprirsi un varco per continuare la ritirata grazie al sacrificio della seconda divisione alpina Tridentina (dove militava anche il sergente maggiore Rigoni) che nella battaglia fu praticamente decimata, con oltre quarantamila fra morti, feriti e prigionieri.

Il 5 aprile scorso il Senato italiano ha approvato definitivamente la legge che istituisce la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino” fissandone la data appunto al 26 gennaio. La legge era stata approvata alla Camera dei deputati il 25 giugno 2019 con 467 voti favorevoli, 7 astensioni e nessun contrario. Al Senato il risultato è stato simile: 189 voti favorevoli, nessuno contrario e un solo astenuto.

Com’è noto, dal 2005 il 27 gennaio – giorno in cui l'Armata Rossa, sul finire della seconda guerra mondiale, liberò i sopravvissuti del campo di sterminio di Auschwitz – si celebra il “Giorno della memoria” istituito dall’Assemblea generale dell’ONU per commemorare le vittime della Shoah. Prima ancora di questa ricorrenza internazionale il Parlamento italiano aveva istituito nel 2004 il “Giorno del ricordo” fissandone la celebrazione il 10 febbraio, in memoria dell’emigrazione forzata di oltre trecentomila italiani nel primo decennio del secondo dopoguerra - cacciati dalle loro terre dopo che queste erano passate sotto la Jugoslavia comunista - e delle vittime delle foibe - le doline carsiche dove furono gettati, durante e dopo la guerra, i corpi di alcune migliaia di italiani uccisi dai partigiani di Tito perché accusati di essere stati parte dell'amministrazione fascista o contrari al nuovo regime.

La ricorrenza del Giorno del Ricordo viene criticata da diversi intellettuali che non negano la storicità delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, ma ne contestano l’uso strumentale che ne è stato fatto da parte della destra. Dal momento che atrocità nelle guerre se ne sono sempre verificate da entrambe le parti, secondo Alessandro Barbero “scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto”.


Basti ricordare che la celebrazione ufficiale si svolge normalmente nella Foiba di Basovizza, che non è una foiba, ma la galleria abbandonata di una miniera, dove inglesi e americani – nell’immediato dopoguerra – hanno recuperato un centinaio di cadaveri, tutti appartenenti – come testimoniato da documenti storici – a soldati tedeschi; che parlare di “genocidio” (espressione purtroppo ricorrente anche nell’attualità e sempre in modo improprio) o di “pulizia etnica” per forse cinquemila persone assassinate non per motivi etnici, ma prevalentemente politici, è una falsificazione storica; 
che il recente tentativo di emendare al Senato  la legge del 2016 che punisce la “negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra”, inserendo le parole “dei massacri delle foibe” subito dopo il riferimento alla Shoah, è un insensata equiparazione fra Olocausto e vittime infoibate.

Lo stesso rischio si corre con la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino”, non sul fatto di celebrare l’eroismo e l’abnegazione di un corpo – tanto amato dall’opinione pubblica – come quello alpino, ma per la data scelta per la sua celebrazione. La battaglia di Nikolaevka è stato sì un episodio che attribuisce lustro e onore al corpo degli alpini, ma non bisogna dimenticare – ancora una volta – il contesto: nell’Operazione Barbarossa le impreparate e mal equipaggiate truppe italiane erano aggregate a quelle tedesche, per una insensata decisione di Benito Mussolini, nell’invasione dell’Unione Sovietica… quindi gli aggressori erano gli eserciti nazisti e fascisti, mentre gli aggrediti erano i sovietici.

Probabilmente legare questa ricorrenza al 26 gennaio non piacerebbe, se fosse ancora vivo , al sergente maggiore alpino Mario Rigoni Stern, come non gli sarebbe piaciuto vedere sventolare le bandiere della NATO il 25 aprile, lui che chiamava compagni (cum panis) i membri dell’ANPI, in quanto “noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere”.



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