Neoliberismo, la malattia incurabile dell'Italia?
Questo articolo, pubblicato sulla rivista francese online Le vent se lève, aggiunge un interessante punto di vista all’analisi della situazione economica attuale in Italia.
Perché commentare un articolo pubblicato oltre tre mesi fa? Perché le ricette neoliberiste – che da decenni avevano dimostrato la loro inefficacia e, anzi, il loro contributo all’aumento delle disuguaglianze – sono state caparbiamente riproposte nell’affrontare la crisi finanziaria del 2008-09 e vengono tuttora contrapposte – si pensi ai Paesi cosiddetti frugali – a eventuali, nuovi, innovativi strumenti per affrontare l’attuale crisi economica post Covid-19.
Ora il modello neoliberale, fatto di tagli alla spesa pubblica, riduzione della tutela dei lavoratori ed esponenziale aumento della precarizzazione, massicce privatizzazioni, riduce la capacità di reazione alla crisi in corso e questo fa si che il dibattito politico sia interamente incentrato sulle modalità di finanziamento della spesa pubblica che la crisi rende indispensabile.
Anche il dibattito acceso che ha caratterizzato la recente riunione del Consiglio Europeo, chiamato a varare il Next Generation Programme e il prossimo bilancio pluriennale dell’Unione, è stato un episodio di questa contrapposizione. A chi proponeva di finanziare la spesa pubblica attraverso la mutualizzazione del debito all’interno del UE, con l’emissione di titoli garantiti dagli Stati membri – un cambiamento radicale nella politica economica comunitaria – si è replicato con il consueto massiccio ricorso a prestiti condizionati a riforme strutturali delle economie dei Paesi richiedenti, al controllo della spesa pubblica (la solita austerity), misure che assoggettano le politiche pubbliche agli interessi dei creditori più che alle aspettative sociali del Paese debitore.
Nel suo articolo, Stefano Palombarini riflette sulle origini dell’affermazione, anche in Italia, di queste ricette e sul fatto che l’austerità, portata avanti in Italia dal “blocco borghese” tra il 2011 e il 2018, sia stata uno strumento per il completamento della transizione del capitalismo italiano al modello neoliberale.
Affronta anche un altro dei temi che i virtuosi neoliberisti vorrebbero controllare e assoggettare al proprio modello: la monetizzazione del debito pubblico attraverso la BCE.
La monetizzazione del debito avviene attraverso l’acquisto di titoli di debito pubblico (i famosi BOT) in cambio di liquidità. Sappiamo che la BCE può acquistare titoli di debito pubblico solo sul mercato secondario, cioè acquistandole da banche private.
Nessuna banca ha però l’obbligo di rivendere i titoli alla BCE, né tantomeno di reinvestire il ricavato della vendita di titoli per acquistarne di nuovi o per immettere liquidità nel sistema economico. Il settore bancario privato, infatti, tende a tutelare le rendite finanziarie rispetto al sostegno dell’economia, a impiegare le risorse in speculazioni in borsa, con il rischio di favorire bolle speculative, cioè un aumento ingiustificato dei prezzi generato dal mercato finanziario e la correlata erosione del potere d’acquisto dei cittadini, e conseguente crisi finanziaria.
D’altra parte con una grossa quantità di debito pubblico italiano nelle mani della BCE, questa istituzione si troverebbe ad avere un enorme potere ricattatorio sulle politiche pubbliche italiane paragonabile a quella dei creditori dei prestiti, e significherebbe certamente l’impossibilità per il futuro italiano di deviare dal percorso neoliberista stabilito dalle istituzioni europee.
Come uscire da questa china pericolosa? Per Palombarini una possibile soluzione risiede nel recupero della sovranità monetaria, cioè in una uscita dalla zona euro, cavallo di battaglia della destra che però una nuova, auspicabile sinistra dovrebbe adottare proprio per rovesciare il paradigma neoliberale e imporre un proprio programma, opposto a quello che il blocco borghese ha reso purtroppo abituale.
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Le Néolibéralisme, maladie incurable de l’Italie?
Redazione di Le vent se lève - 20 aprile 2020
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Il Presidente del Consiglio dei Ministri italiano Giuseppe Conte al Parlamento europeo nel 2019. © Unione Europea 2019 — Fonte: EP |
Il Coronavirus colpisce un Paese indebolito da riforme strutturali che hanno organizzato l'economia e la società italiana sulla base di principi neoliberali. Il dibattito politico sta schivando la questione, così come la questione europea. Tuttavia, l'Italia non uscirà dalla crisi senza rompere con la logica neoliberale. Di Stefano Palombarini, docente all'Università di Parigi 8 e autore, con Bruno Amable, de L'illusion du bloc bourgeois (Raisons d'agir, 2017).
Primavera
2020: il coronavirus, che sta imperversando in tutto il mondo, sta
colpendo l'Italia con particolare violenza, con conseguenze
sull'economia e sulla struttura produttiva del Paese impossibili da
misurare per il momento, ma indubbiamente catastrofiche. L'opinione
pubblica si sta rivoltando massicciamente contro l'UE. In un sondaggio
condotto a fine marzo 2020 [1],
solo il 49% degli intervistati si è dichiarato "europeista", contro il
64% prima dell'inizio dell'epidemia; il 72% ritiene che l'UE non abbia
fornito alcun aiuto di fronte alla crisi, e il 77% pensa che il rapporto
tra Italia e UE sia destinato a rimanere conflittuale. Il 26 marzo il
Primo Ministro Conte si rifiuta di firmare le conclusioni del Consiglio
europeo convocato per elaborare una risposta comune alle difficoltà
economiche causate dalla crisi sanitaria.
Nonostante
l'annuncio di un piano di sostegno europeo di 500 miliardi di euro il 9
aprile, l'Unione Europea è ancora alla ricerca di ulteriori mezzi per
far fronte alle spese generate dalla crisi economica che sta iniziando.
Ci si chiede cosa stia succedendo in Italia, uno dei sei firmatari del
Trattato di Roma, che fino a pochi anni fa era quasi unanimemente a
favore dell'integrazione europea.
Dalla formazione del blocco borghese alla sua sconfitta
Per capire, dobbiamo prima di tutto tornare a una giornata dell'estate 2011, il 5 agosto per essere precisi.
In tale data, il Presidente della BCE (Jean-Claude Trichet) e il suo successore designato (Mario Draghi) firmano insieme una lettera al governo italiano, che detta la politica economica da seguire se si vuole beneficiare di una politica monetaria accomodante, necessaria per evitare l'impennata dei tassi di interesse sul debito pubblico.
La lettera elenca una serie di "riforme strutturali" relative alla flessibilità del mercato del lavoro, alla privatizzazione dei servizi pubblici e alla riduzione della protezione sociale.
Risuona nel progetto di una parte delle classi dirigenti italiane, che da tempo vogliono liberarsi della "vecchia spaccatura" tra destra e sinistra, e riunire in un'unica alleanza tutti gli attori responsabili e ragionevoli: cioè tutti coloro che sono a favore del perseguimento delle riforme neoliberali.
Il 23 ottobre dello stesso anno, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno mostrato apertamente, in una conferenza stampa divenuta famosa, la loro sfiducia nella capacità del governo Berlusconi di attuare queste riforme e di ridurre il debito pubblico; il 12 novembre Berlusconi ha presentato le dimissioni e solo quattro giorni dopo Mario Monti ha preso il suo posto, alla guida di un governo tecnico il cui programma prevedeva le misure richieste nella lettera di Trichet e Draghi.
Nasce il blocco borghese, e sarà l'alleanza al potere dal 2011 fino alle elezioni del marzo 2018 con i governi guidati successivamente da Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.
Abbiamo chiamato questa nuova alleanza il “blocco borghese” [2] perché
aveva l'ambizione di riunire le classi medie e superiori
precedentemente separate dalla divisione destra/sinistra. Le classi
lavoratrici sono state escluse per scelta programmatica, per così dire,
dallo scambio politico tra sostegno e politiche pubbliche. Ma le classi
medie sono state rese precarie e fragili dall'azione del blocco
borghese, il cui perimetro è stato gradualmente ridotto ai soli gruppi
privilegiati. Per spiegare questa dinamica, viene citata più spesso
l'austerità richiesta da Bruxelles, che si è effettivamente tradotta in
una serie di misure socialmente molto pesanti. È in lacrime che il
ministro Fornero ha presentato il “sacrificio necessario” della riforma
delle pensioni che aveva appena firmato nel dicembre 2011. Ma sarebbe
sbagliato ridurre l'azione del blocco borghese a una politica di
austerità volta a ridurre il debito pubblico. Le modifiche apportate al
Codice del lavoro, e in particolare alla legge sul lavoro, il
provvedimento di punta del governo Renzi, che mirava a una maggiore
"flessibilità" del rapporto salariale, non si spiegano con
considerazioni di bilancio e sono indicative della reale strategia del
blocco borghese: l'austerità era uno strumento al servizio di un progetto più ambizioso,
cioè il completamento della transizione del capitalismo italiano al
modello neoliberale. Una transizione già ben avviata dai governi di
destra e di "centro-sinistra" che si sono alternati al potere a partire
dagli anni Novanta, ma che il blocco borghese ha portato al suo
definitivo compimento.
L'azione
"riformatrice" dei governi nel periodo 2011-2018 ha fortemente
penalizzato le classi lavoratrici, ma ha anche prodotto un crescente
impoverimento e precarietà delle classi medie, che mancava al blocco
borghese, provocandone il crollo. Non è necessario dettagliare tutti i
risultati elettorali per misurare la violenza della caduta: basta
evocare il destino dei quattro primi ministri espresso da questa
alleanza sociale. Mario Monti aveva fondato un partito, Scelta Civica,
nel 2013, che ha cessato di esistere dopo essere sceso a meno dell'1%
dei voti e non aver ottenuto un solo rappresentante eletto alle elezioni
legislative del 2018. Il suo successore a capo del governo, Enrico
Letta, si è ritirato (temporaneamente?) dalla vita politica e insegna a
Sciences Po Paris. Matteo Renzi, che aveva spodestato Letta dal governo
per prendere il suo posto, non è più, come allora, il dominus di un
Partito Democratico che ha lasciato dopo essersi trovato in una
posizione di minoranza; il movimento da lui formato, Italia Viva, è ora
accreditato dalle urne con circa il 2% dei voti. Paolo Gentiloni, dal
canto suo, è stato nominato commissario europeo e si è così
relativamente allontanato dalla lotta politica italiana.
La Lega e i 5 Stelle: oppositori del blocco borghese, ma non del Neoliberismo
Il
crollo del blocco borghese è andato a beneficio degli unici due
movimenti che vi si erano opposti. Il Movimento 5 stelle, che non si era
mai presentato alle elezioni nazionali, ha ottenuto il 23% dei voti nel
2013, ed è stato il principale partito italiano nel 2018 (32,7%). La
Lega, dal canto suo, è passata dal 4% nel 2013 al 17% nel 2018, per
raggiungere il 34% alle elezioni europee dell'anno successivo.
Per
avere un'idea più chiara del panorama politico italiano, è importante
sottolineare che entrambi i partiti hanno combattuto contro il blocco
borghese, ma senza fare delle riforme neoliberali il motivo principale
della loro opposizione. Questo vale soprattutto per la Lega, erede di un
elettorato di centro-destra precedentemente sedotto da Berlusconi e
dalle sue promesse di arricchimento individuale alla portata di tutti in
una società libera dal peso dell'intervento statale. In una situazione
di impoverimento generalizzato delle classi lavoratrici e medie, Salvini
si è concentrato a spiegare che se le promesse del libero mercato non
sono state mantenute, è a causa di un nemico esterno la cui identità è
cambiata nel tempo [3]:
la finanza globalizzata, la burocrazia di Bruxelles, i migranti (eh sì,
soprattutto e spesso i migranti), e ora la Germania. Le spettacolari
svolte di Salvini su temi fondamentali come l'adesione dell'Italia
all'Unione Europea e l'euro (su cui, nell'arco di tre anni, ha mostrato
praticamente ogni possibile posizione) non nascondono, agli occhi del
suo elettorato, la coerenza di una posizione che attribuisce a un nemico
esterno l'intera responsabilità delle difficoltà dell'Italia: la
"sovranità" della Lega non è altro che la ripetuta dichiarazione della
necessità di una difesa nazionale contro questo nemico, mutevole e a
volte totalmente immaginaria. Lo stesso Salvini, inoltre, mostra una
fede incrollabile nella teoria del trickle-down (gli utili di oggi sono
gli investimenti di domani e il lavoro di dopodomani), e al centro del
programma della Lega c'è ancora oggi, nel bel mezzo di una crisi
economica e sociale, la flat tax, cioè la rinuncia ad ogni funzione
redistributiva della tassazione e di ogni finanziamento fiscale della
nuova spesa pubblica.
Sulle riforme neoliberali, la posizione dei 5 Stelle è in realtà più ambigua.
La volontà di difendere i servizi pubblici e la lotta al lavoro
precario erano molto presenti nei primi anni di vita del movimento, ma
lo era allo stesso tempo un tema anti-élite che ben presto si è confuso
con un atteggiamento antistatale. Né di destra né di sinistra, ostili
alle logiche di mercato, ma anche all'intervento pubblico nell'economia,
i 5 Stelle non sono stati in realtà in grado di sviluppare una vera e
propria strategia: durante il governo giallo-verde che li ha visti
alleati con la Lega, è stato Salvini a dimostrare, senza troppe
difficoltà, l'egemonia.
Così,
quando hanno governato insieme, da giugno 2018 a settembre 2019, la
Lega e i 5 Stelle non sono tornati indietro su nessuna delle riforme
neoliberali del periodo precedente. Anche la legge sulle pensioni di
Fornero e il Jobs Act di Renzi, le misure più controverse del blocco
borghese, sono state modificate solo marginalmente.
Il debito: un'ossessione che ci impedisce di pensare
L'epidemia
di coronavirus sta quindi colpendo un paese che si trova in una
situazione paradossale. Il capitalismo italiano è ormai pienamente
organizzato secondo una logica neoliberale, che riduce notevolmente la
capacità di reazione alla crisi. I tagli alla spesa sanitaria, 37
miliardi negli ultimi dieci anni [4],
così come la forte riduzione del ruolo della sanità pubblica a favore
del settore privato, stanno ostacolando la capacità di assistenza ai
malati. La diffusione dell'insicurezza del lavoro e la debolezza del
sistema di indennità di disoccupazione espongono il mondo del lavoro in
modo molto diretto alle conseguenze della crisi. Il declino della grande
industria a favore delle piccole e medie imprese aumenta la possibilità
di fallimenti. Le massicce privatizzazioni avvenute negli ultimi
trent'anni impediscono una vera e propria politica industriale volta a
sostenere la produzione. Il coronavirus sta dolorosamente dimostrando
quanto le riforme neoliberali stiano indebolendo la società italiana.
Ma, ed è questo il paradosso, ancora oggi queste riforme rimangono sullo
sfondo del dibattito politico, che è interamente incentrato sulle
modalità di finanziamento della spesa pubblica che la crisi rende
indispensabile. Certo, in Italia sorgeranno con urgenza problemi
finanziari e monetari, ma è comunque impressionante vedere come il
rapporto salariale, la protezione sociale, i servizi pubblici, la
possibilità di una politica industriale, tutti ambiti istituzionali che
avranno un ruolo decisivo nella crisi, rimangano assenti dal dibattito.
Il motivo è semplice: i principali partiti italiani, sia di governo che
di opposizione, non hanno proposte chiare da fare su questi temi. Il
Partito democratico, dopo la scissione di Renzi, è
riluttante ad intraprendere una vera e propria valutazione critica del
periodo del blocco borghese, e tiene in mezzo a sé una componente
importante che rivendica i meriti delle riforme neoliberali. I 5 stelle,
che dal settembre 2019 formano la coalizione di governo con il Partito
Democratico, mostrano ancora oggi una linea che non è né di destra né di
sinistra, che si riflette concretamente nell'assoluta assenza di
visione strategica. E la Lega, che rimane profondamente radicata
nell'ideologia neoliberale, ha tutto l'interesse a strutturare il
conflitto politico su altre questioni.
Il
dibattito italiano ruota quindi attorno a un unico tema: il
finanziamento di un debito destinato a crescere di diverse decine di
punti di PIL. Si tratta, ovviamente, di un problema molto importante e
urgente. Ma anche quando affrontano questo tema, la politica e la
società italiana sembrano più condizionate dai traumi del passato che da
una visione strategica per il futuro. Prendiamo prima la misura del
problema. Un calo dell'attività che può essere stimato, senza
catastrofismo, intorno al 10% del PIL, comporterebbe meccanicamente un
calo delle entrate dello Stato di circa 90 miliardi di euro. Prima della
crisi, il deficit programmato era di 20 miliardi; e dobbiamo anche
considerare le misure fiscali che la crisi renderà necessarie.
All'inizio di aprile il governo italiano aveva già mobilitato 50
miliardi, ma queste sono solo le prime misure estremamente urgenti.
Anche se è ovviamente troppo presto per fare una stima precisa, possiamo
quindi immaginare che si tratti di trovare nuovi finanziamenti per un
importo compreso tra i 200 e i 300 miliardi di euro. A ciò si aggiunge
la necessità di rinnovare i titoli in scadenza di un debito pubblico
che, prima della crisi, superava i 2400 miliardi di euro; e questo
rinnovo potrebbe rappresentare un problema per un Paese in piena
recessione.
Senza la BCE, nessuna salvezza?
Il
finanziamento del debito è quindi destinato a diventare un vero e
proprio problema. Tra le possibili soluzioni, va menzionata la
mutualizzazione del debito pubblico all'interno dell'Unione Europea,
sogno ricorrente dei più convinti europeisti perché implicherebbe un
salto decisivo verso una vera e propria unione politica: ma non c'è
nulla, né nella storia passata dell'UE né nelle attuali dinamiche
politiche dei Paesi del Nord, che suggerisca che un tale scenario di
soluzione possa avere una possibilità di essere tradotto in realtà.
La
seconda possibilità è un prestito europeo soggetto a condizioni che si
tradurrebbe, una volta superata la crisi, in politiche pubbliche che
rispondano più agli interessi dei creditori che alle aspettative sociali
italiane. Sappiamo, ad esempio, che il Meccanismo europeo di stabilità
(MES) ha la possibilità di raccogliere fondi fino all'importo teorico
di 700 miliardi, ma si possono prevedere anche altri
meccanismi istituzionali per ottenere lo stesso risultato. Tuttavia, una
tale ipotesi incontra una forte resistenza in un Paese segnato dagli
anni del blocco borghese. Solo la frazione del Partito democratico che
rivendica come positiva l'esperienza dei governi Monti, Letta, Renzi e
Gentiloni sarebbe pronta a sostenere una soluzione che consisterebbe nel
prolungare la dinamica politica degli ultimi dieci anni. Per lo stesso
motivo, i 5 Stelle e la Lega, che hanno costruito la loro base
elettorale opponendosi all'azione pubblica che soddisfa i "requisiti"
europei, sono totalmente contrari. Soprattutto, gran parte della classe
media e della classe operaia italiana vivrebbe un programma di
aggiustamento macroeconomico e di cambiamento istituzionale dettato
dalle istituzioni europee, come prolungamento di un incubo che pensavano
fosse appena finito.
La natura altamente improbabile della prima
soluzione, e il rifiuto molto ampio della seconda, spiegano il quasi
consenso generato da una terza possibilità: quella di un debito pubblico
in gran parte finanziato dalla creazione di moneta della BCE. Una
soluzione che presenta evidenti vantaggi, soprattutto in assenza dei
limiti dei finanziamenti a basso interesse, ma anche svantaggi che,
stranamente, nessuno, dall'estrema destra a ciò che resta della sinistra
radicale, menziona in Italia.
Questi inconvenienti sono di due tipi.
In primo luogo, come sappiamo, la BCE può acquistare titoli di debito pubblico solo
sul mercato secondario. È vero che, dal punto di vista dell'impatto
sullo spread che pesa sui tassi di interesse, questo tipo di intervento
equivale praticamente ad un acquisto di titoli in emissione. Resta il
fatto che la liquidità emessa dalla BCE viene recuperata direttamente
dagli agenti privati che detengono i titoli, ovvero principalmente
banche e fondi di investimento, che sono certamente tra i grandi
vincitori dell'operazione e che non hanno l'obbligo di utilizzare tutta
la nuova liquidità per acquistare nuovi titoli. Al contrario,
l'esperienza dimostra che parte della liquidità creata dalla BCE sarà
utilizzata per investimenti borsistici che probabilmente sosterranno
artificialmente i prezzi penalizzati dal calo dell'attività globale,
alimentando così bolle speculative e aumentando il rischio di future
crisi finanziarie.
Il secondo tipo di svantaggio causato dai finanziamenti della BCE riguarda più direttamente l'Italia. Un prestito soggetto a condizioni,
come quello che potrebbe venire dal MES, incontra una resistenza molto
ampia e comprensibile nella politica e nella società italiana. Ma un
debito pubblico in gran parte nelle mani della BCE dovrebbe provocare lo
stesso tipo di reazione, mentre, stranamente, questo non è affatto il
caso nel dibattito italiano. Certo, possiamo sempre sperare che la BCE
rimanga nel suo ruolo istituzionale e non affermi mai l'enorme potere
politico che le verrebbe conferito dal suo ruolo di principale creditore
dello Stato italiano; ma anche in questo caso l'esperienza dice il
contrario.
Gli italiani hanno dimenticato che la suddetta lettera,
che ha aperto le porte del governo al blocco borghese, non è stata
firmata né dalla Commissione europea né dai primi ministri del Nord
Europa, ma da due direttori della Banca centrale? Finanziare il debito
italiano attraverso la creazione monetaria della BCE significa che, in
futuro, sarà impossibile per qualsiasi governo italiano deviare dal
percorso stabilito dalla BCE. Questa condizionalità è implicita, e
quindi politicamente più facile da accettare rispetto a un elenco di
condizioni stabilite esplicitamente; ma proprio perché è implicita,
sfugge completamente a qualsiasi controllo democratico e a qualsiasi
processo di negoziazione. Più facile da convalidare politicamente, e più
immediatamente accessibile, la soluzione di un finanziamento della BCE
pone lo stesso tipo di vincoli di un prestito concesso da altri paesi
europei attraverso il MES o altre istituzioni comunitarie. Le cose
sarebbero ovviamente diverse se la BCE, invece di godere di una totale
indipendenza, fosse soggetta al controllo politico di un ipotetico
governo europeo; ma questo è uno scenario più fantascientifico che
reale, ancor più che la mutualizzazione del debito.
Uscire dall'Euro, ma come?
Poiché
le soluzioni comunitarie al problema del finanziamento del debito sono
insoddisfacenti, resta da vedere se l'Italia potrà uscire dall'euro
riacquistando la sovranità monetaria. Va detto, però, che nessuna forza
politica italiana ha finora lavorato seriamente in questa direzione. La
Lega ha l'abitudine di sollevare questa ipotesi quando le scadenze
elettorali si avvicinano, per passare a posizioni molto diverse quando
si tratta di governare. Si ricorderà che dopo la formazione del governo
giallo-verde nel 2018, Salvini, che aveva fatto campagna elettorale su Italexit,
ha dichiarato in più occasioni di aver "cambiato idea" sull'euro. E
oggi, in risposta alla crisi, è chiara la sua disponibilità a
partecipare a un governo di unità nazionale che potrebbe essere guidato
da ... Mario Draghi. È vero che, a volte, la Lega ama evocare lo
scenario di una sovranità monetaria che permetta un generale
abbassamento delle tasse e un ritorno alla crescita, che corrisponde al
sogno più profondo di una parte della sua base elettorale: rinnovare le
promesse di una concorrenza libera e non falsata portando arricchimento
individuale. Ma nel blocco sociale rappresentato dalla Lega, la piccola e
media impresa del nord del Paese occupa una posizione assolutamente
centrale; fortemente integrata con l'area economica tedesca, rifiuta
ogni ipotesi di rottura per paura di ritorsioni commerciali. In passato,
anche i 5 stelle sono stati favorevoli a un'uscita dall'euro: ma, come
la Lega, ora sperano di poter " cambiare l'UE dall'interno".
Un obiettivo condiviso dal Partito Democratico, il più europeista dei
partiti italiani, che produce una convergenza abbastanza forte e rende
improbabile un'uscita deliberata dall'euro.
Va anche aggiunto che
uscire nel bel mezzo di una recessione avrebbe conseguenze economiche
molto pesanti. In caso di riacquisizione della sovranità monetaria, la
massiccia monetizzazione del debito pubblico che sarebbe necessaria per
affrontare la crisi comporterebbe una forte svalutazione della nuova
moneta. Il rischio di una tale svalutazione sarebbe incorporato nei
tassi di interesse, creando così un circolo vizioso tra l'aumento dei
tassi, la necessità di monetizzare successivamente il debito e
l'ulteriore svalutazione, che solo la ristrutturazione del debito
potrebbe fermare. Ma nessun attore politico italiano osa menzionare
l'utilità della ristrutturazione del debito e della nazionalizzazione
del settore bancario che necessariamente l'accompagnerebbe.
La
fiducia degli investitori nella sostenibilità del debito italiano, e
quindi la possibilità di gestire un'uscita ordinata dall'euro, sarebbe
più forte nei periodi di crescita, ma questo è quello che potremmo
chiamare il paradosso dell'euro: quando l'economia va bene, uscire
sarebbe più semplice, ma nessuno ci pensa; quando l'economia non va
bene, gli effetti benefici della sovranità monetaria diventano più
chiari, ma uscire diventa molto più complicato.
Il ruolo della sinistra italiana, se ce ne fosse una
Nessuno
degli scenari possibili sembra quindi rappresentare una soluzione
realistica e politicamente valida per l'Italia. Alcuni presupposti, come
la mutualizzazione del debito pubblico o la messa sotto controllo
democratico della BCE, presuppongono riforme istituzionali che in realtà
non sembrano essere all'orizzonte. Il finanziamento attraverso un
prestito europeo ha lo scopo di provocare rapide e fortissime reazioni
politiche ostili; reazioni che si manifesteranno anche, in un futuro non
troppo lontano, non appena la BCE deciderà di affermare il potere
politico che sta accumulando attraverso il finanziamento del debito
attraverso la creazione monetaria. Per questi motivi, non è troppo
azzardato prevedere che il già diffuso sentimento di disincanto nei
confronti dell'UE si diffonderà ulteriormente in Italia nel prossimo
futuro.
In questa complicata situazione politica, il compito della
sinistra dovrebbe essere quello di orientare nuovamente il dibattito sul
tema delle riforme strutturali che hanno segnato il Paese negli ultimi
decenni e che sono alla radice delle attuali difficoltà. È in questa
direzione che va indirizzato il sentimento di ostilità verso l'UE,
destinato comunque a crescere, sottolineando il ruolo che la costruzione
europea ha svolto nella transizione del capitalismo italiano verso il modello neoliberale.
Una tale posizione porterebbe inevitabilmente la sinistra a difendere
il ritorno alla sovranità monetaria, che assumerebbe un significato
specifico nel quadro di un più generale programma di rottura con il
neoliberismo. Un programma di questo tipo segnerà chiaramente la
distanza dalla destra nazionalista, che sarà probabilmente la grande
vincitrice nel prossimo periodo. La destra nazionalista presenterà (e
sta già presentando) il controllo della creazione monetaria come lo
strumento che ci permetterà di uscire dalla crisi continuando ad
abbassare le tasse sul capitale e a ridurre la funzione redistributiva
della tassazione, preservando la flessibilità del mercato del lavoro.
Per la sinistra, la sovranità monetaria deve essere messa al servizio di
obiettivi strettamente opposti: nessuna ambiguità, nessuna simpatia, e
ancor meno qualsiasi fronte comune è possibile con la destra
nazionalista, destinata a sostituire il blocco borghese nel ruolo di
principale sostegno politico del neoliberismo.
Speriamo solo che una tale sinistra possa ancora una volta esistere nel panorama politico italiano.
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L’articolo di Stefano Palombarini è uscito sulla rivista online Le Vent Se Lève.
Stefano Palombarini è un economista membro del gruppo di ricerca "Economie Politique et Institutions" all’Università Paris 8 - Vincennes - Saint-Denis.
Questo commento è stato pubblicato anche su EuThink l’8 maggio 2020
[1] “Il sondaggio: fiducia in Ue crolla anche fra europeisti”, AdnKronos, 29/3/2020
[2] Amable, Guillaud, Palombarini, L’Économie politique du néolibéralisme. Le cas de la France et de l’Italie, Editions Rue d’Ulm, Parigi, 2012.
[3] Palombarini, “Il liberismo autoritario”, Jacobin Italia, 25/7/2019.
[4] “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”, Report Osservatorio GIMBE, n. 7/2019.