Uno Stato prestatore o uno Stato innovatore?

 


Come dovrebbe cambiare il ruolo dello Stato per affrontare al meglio le sfide post virus? contribuire a una crescita più sostenibile? Il settore pubblico può, assieme a quello privato, contribuire a una crescita più sostenibile?


Uno Stato imprenditore?

“La crisi e la recessione Covid-19 offrono un’opportunità unica per ripensare il ruolo dello Stato, in particolare i suoi rapporti con le imprese. L’ipotesi di lunga data secondo cui il governo è un peso per l’economia di mercato è stata smentita. Riscoprire il ruolo tradizionale dello Stato come “investitore di prima istanza” – piuttosto che come prestatore di ultima istanza – è diventato uno dei presupposti per un’efficace elaborazione delle politiche nell’era post-Covid.” Così inizia l’articolo di Mariana Mazzucato e Antonio Andreoni pubblicato in inglese il 25 giugno 2020 sulla rivista Project Syndicate e tre giorni dopo nella versione italiana su Il Fatto Quotidiano .

La questione non è nuova: già il 25 marzo scorso il Financial Times ha pubblicato un articolo dell’ ex governatore della BCE, Mario Draghi, che poneva un problema fino ad allora eluso o rimosso dal dibattito politico ed economico: l’entità della crisi economica, conseguenza della pandemia e delle misure di chiusura (lockdown) prese per contenerla. Draghi sottolineava soprattutto il ruolo imprescindibile dello Stato: “La perdita di reddito subita dal settore privato – e l'eventuale debito contratto per colmare il divario – deve essere infine assorbita, in tutto o in parte, nei bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.”

Più recentemente, sempre Mariana Mazzucato, l’economista italiana docente di Economia dell’innovazione che il presidente del consiglio Conte ha voluto prima come consigliere economico di Palazzo Chigi poi come membro della task force “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese, ha rilasciato due interviste (a La Repubblica il 26 aprile e al quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 ore, il 30 aprile) che hanno suscitato un acceso dibattito fra analisti economici ed esponenti del mondo imprenditoriale.

Cosa proponeva di scandaloso Mariana Mazzucato, nota per aver rivendicato in libri e saggi il ruolo fondamentale di uno Stato imprenditore come motore dinamico dell’innovazione in quanto in grado di farsi carico del rischio d’investimento iniziale di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie? Proponeva appunto che lo Stato, nel finanziare il sistema produttivo colpito dalla crisi economica, potesse e dovesse orientare questi investimenti in progetti di ricerca e innovazione lungimiranti, normalmente evitati dagli investitori privati per le loro caratteristiche di incertezza (che è cosa diversa dal rischio proprio di ogni investimento). I capitali privati sono infatti restii a investire in settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica per i tempi medio-lunghi necessari alla ricerca e allo sviluppo e per l’incertezza dell’effettiva redditività della commercializzazione del prodotto.

La proposta di Mazzucato ha provocato una levata di scudi da parte del mondo imprenditoriale e dei giornalisti economici dei principali quotidiani italiani (i cui proprietari, va ricordato, non sono editori puri, avendo anche importanti interessi industriali) che denunciavano il tentativo di statalizzare o addirittura di sovietizzare l’industria, approfittando delle contingenti difficoltà finanziarie. Il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, sulle colonne del Corriere della Sera del 4 maggio chiariva che contributo gli imprenditori si attendevano dallo Stato: “faccia il regolatore, stimoli gli investimenti. Per esempio questo sarebbe il momento per rilanciare con più risorse il piano Industria 4.0, visto che a questa crisi sopravviverà chi investirà. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti”.

Altri hanno ricordato la fallimentare esperienza dell’ultima stagione dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, quando – nell’ultimo quarto del secolo scorso – manteneva in vita aziende decotte, facendone pagare il prezzo alla collettività; altri ancora hanno denunciato che un intervento pubblico attivo nella gestione dell’economia avrebbe conculcato la libera iniziativa e la legittima ricerca del profitto dei privati. In definitiva il mondo imprenditoriale – liberista solo a parole – continua a richiedere un sostegno economico dallo Stato, in investimenti e sgravi fiscali, senza alcuna contropartita, applicando cioè la ben nota pratica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.

Gli strenui difensori della libera iniziativa privata e del non intervento pubblico nell’economia dimenticano che le partecipazioni statali non sono cessate con le dismissioni delle aziende IRI: Stato ed Enti locali hanno oggi partecipazioni azionarie in società quotate in borsa che rappresentano un terzo dell’intera capitalizzazione di Piazza Affari, senza considerare il ruolo pubblico in importanti aziende non quotate come Alitalia, Ferrovie dello stato (che ha incorporato Anas), Sea Aeroporti, ILVA…

Le imprese italiane non si limitano a chiedere il pronto pagamento del residuo debito della Pubblica Amministrazione nei loro confronti e una politica di sgravi e agevolazioni fiscali, che comunque rappresentano un costo e un mancato introito per il bilancio statale (e, in definitiva, per la collettività), ma richiedono finanziamenti diretti o linee di credito garantite che normalmente comportano una partecipazione azionaria offerta al prestatore o al garante.

Così, per il prestito di 6,3 miliardi che Banca Intesa ha concesso al gruppo FCA Fiat Chrysler Automobiles, garantito dallo Stato attraverso la finanziaria della Cassa Depositi e Prestiti, la garanzia avrebbe potuto essere condizionata – come proposto da un economista come Emiliano Brancaccio e da un sindacalista come Maurizio Landini – a una partecipazione azionaria nel gruppo automobilistico. Proposta non accolta dal Governo che non ha inteso avvalersi di questa opportunità: proprio lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo di Mazzucato e Andreoni, la finanziaria SACE della Cassa Depositi e Prestiti ha confermato la garanzia del prestito confermato appena due giorni prima dal consiglio di amministrazione di Banca Intesa.

FCA si appresta a una fusione con il gruppo PSA, Peugeot Société Anonyme, dove lo Stato francese ha una partecipazione azionaria; l’accordo – che, come conferma John Elkann azionista di controllo di FCA, “è scritto nella pietra” – precede la cessione del controllo del super gruppo alla Peugeot in cambio di un maxi dividendo di 5,5 miliardi per gli azionisti di FCA.

Se la politica industriale di FCA-PSA sarà decisa in Francia, allora la condizione della salvaguardia dei livelli occupazionali negli stabilimenti italiani, posta dal governo italiano per concedere la garanzia sul prestito, è “scritta sull’acqua”: sarà un socio transalpino e, in definitiva, lo Stato francese a decidere le sorti degli stabilimenti italiani del gruppo, pericolo che si sarebbe potuto limitare se lo Stato italiano avesse deciso di avere una presenza nel gruppo paritetica a quella dello Stato francese, difendendo poi da azionista gli interessi dell’industria e dei lavoratori italiani.

Aver perduto questa opportunità non significa che la proposta di una attiva presenza dello Stato nell’economia non sia più praticabile, restando anzi un’alternativa auspicabile.


Post popolari in questo blog

Il pezzo sovraccarico

Un altro giorno della memoria: il rischio della falsificazione storica