Will we do whatever it takes?
Riusciranno le istituzioni europee ad affrontare la crisi economica con una strategia comune? La difficile conciliazione fra gli interessi dei cosiddetti Paesi frugali e quelli dei più fragili Paesi mediterranei, con la mediazione di Germania e BCE.
Sono trascorsi quattro mesi da quando Mario Draghi dalle pagine del Financial Times ricordava agli Stati colpiti dalla crisi economica post-Covid19 la necessità di assorbire nel debito pubblico tutto il debito accumulato nel settore privato, in modo da far ripartire il sistema economico e ancora non si è delineata – in Italia come in Europa – una chiara strategia su quali basi fondare la ripartenza e a quali obiettivi aspirare.
Si continua a discutere se attivare o meno il Meccanismo Europeo di Stabilità per rafforzare il servizio sanitario pubblico in vista di un’eventuale recrudescenza della pandemia; nelle riunioni della Commissione europea si sono approvati gli strumenti finanziari con cui affrontare la crisi economica, come il Recovery Fund, ma si è continuato a rimandare la definizione dell’entità delle risorse messe a disposizione, quante saranno in erogazioni a fondo perduto e quante in prestiti agevolati, in quali tempi saranno disponibili; gli Stati membri più virtuosi continuano a premere per il ripristino del patto di stabilità e il conseguente ricorso alle consuete misure di austerity; l’accordo faticosamente raggiunto lo scorso 21 luglio con l’approvazione del Next Geration Europe Programme – in sostituzione del Recovery Fund – e del prossimo bilancio pluriennale è un compromesso fra novità nell’impegno di risorse a sostegno della ripresa economica e la salvaguardia delle consuete ricette neoliberiste; il Fondo monetario internazionale rettifica in peggio le prospettive dell’economia mondiale nell’aggiornamento di giugno del suo rapporto World Economic Outlook; la BCE prosegue nel finanziare i sistemi bancari europei nell’ambito del Pandemic Emergency Purchase Programme, ma sotto la spada di Damocle della sentenza emessa dalla Corte Costituzionale tedesca; l’Italia, come la maggior parte degli altri Paesi, ha adottato misure urgenti per decine di miliardi a sostegno dei cittadini e delle imprese più colpiti dalla crisi, ma – ora che sa di poter contare su 209 miliardi di risorse finanziarie dall’Unione europea – non sa ancora in quali tempi potrà disporne (e l’ipotesi che sovvenzioni e prestiti vengano erogati soprattutto fra il 2022 e il 2023, con soli 20 miliardi di euro anticipati al 2021 non è rassicurante).
Eppure i contorni della crisi, che l’ex governatore della BCE definiva genericamente “senza precedenti”, cominciano a delinearsi con drammatica chiarezza. Secondo i dati forniti dall’ISTAT e i primi risultati dell’Indagine straordinaria sulle famiglie italiane commissionata dalla Banca d’Italia, nel trimestre marzo-maggio 2020 si è perso mezzo milione di posti di lavoro, quasi tutti nel mondo del precariato; la disoccupazione è aumentata di oltre trecentomila unità; un terzo delle imprese rischia di chiudere i battenti; quattro famiglie su dieci hanno visto ridurre il proprio reddito di oltre la metà e dispongono della liquidità necessaria appena a sostenere le spese essenziali per meno di tre mesi.
Alle tinte fosche di questo quadro dell’economia e della società italiana, si contrappone in Europa la riproposizione da parte dei Paesi cosiddetti “frugali” delle ricette neoliberiste che già avevano mostrato la loro inefficacia prima della pandemia, mentre in Italia Confindustria preme – come sempre – per ricevere risorse finanziarie dalla Stato senza offrire contropartite e il Comitato di esperti in materia economica e sociale guidato da Vittorio Colao ha prospettato, nel suo dossier Iniziative per il rilancio "Italia 2020-2022", il ritorno al consueto sistema economico capitalistico dominato dal mondo finanziario e dai grandi investitori.
Con queste premesse sembra allontanarsi la prospettiva di utilizzare la crisi come un’opportunità per ripensare radicalmente il sistema economico e sociale, mentre si fa sempre più concreto lo scenario di un impossibile ritorno alla rassicurante normalità dell’economia pre-crisi: pur di evitare la necessaria ristrutturazione del sistema produttivo, ci si propone una riedizione di un modello già incamminato verso la recessione e l’insolvenza.
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Il 25 marzo scorso il Financial Times ha pubblicato un articolo dell’ex governatore della BCE, Mario Draghi, che poneva un problema fino ad allora eluso o rimosso dal dibattito politico ed economico: l’entità della crisi economica, conseguenza della pandemia e delle misure di chiusura (lockdown) prese per contenerla. Era ben chiaro a tutti che la crisi economica sarebbe stata inevitabile e avrebbe interessato tutti i Paesi del mondo, ma nessuno, con altrettanta chiarezza di Draghi, aveva posto l’accento sulle risorse finanziarie ingenti che si sarebbero dovute reperire al momento del riavvio del sistema produttivo. Draghi, paragonando l’epidemia a una guerra, si concentrava sull’immane sforzo richiesto dalla ricostruzione nel dopoguerra e affidava allo Stato il compito di far ripartire l’economia del Paese, assorbendo nel debito pubblico tutto il debito privato. Non forniva cifre sull’impegno che sarebbe ricaduto su ogni finanza pubblica, anche se suggeriva si sarebbe trattato di un impegno “senza precedenti”.
Le argomentazioni di Draghi hanno risvegliato il dibattito nel mondo politico ed economico italiano, sino ad allora concentrato prevalentemente sulla rapida diffusione dei contagi e sulla tenuta del sistema sanitario in una regione che vantava, in questo ambito, il primato nazionale. Per entrambi i problemi succitati le istituzioni regionali e le associazioni locali degli industriali hanno avuto una quota rilevante di responsabilità (la ventennale privatizzazione della sanità lombarda, l’inerzia pubblica di fronte all’emergenza sanitaria, le pressioni degli industriali perché non venisse fermato il sistema produttivo nelle zone focolai di infezione); tuttavia, fino ad allora, l’interesse sull’impatto economico dell’epidemia si manteneva in ambito locale. Le dichiarazioni dell’ex governatore convinsero un po’ tutti che la crisi non sarebbe stata circoscritta a poche zone, ma avrebbe interessato l’intera economia italiana (e non solo quella). Ci si accorse solo allora che le quattro regioni più colpite dall’epidemia contribuivano al 45% del prodotto interno lordo nazionale.
Orientarsi fra troppe sigle
Curiosamente, però, il dibattito – almeno in Italia – non si è concentrato sulla quantificazione degli aiuti necessari, ma sugli strumenti finanziari da cui attingere le risorse. Si è a lungo dibattuto sulle condizionalità del Meccanismo Economico di Stabilità (MES), senza neppure considerare l’esiguità delle cifre che avrebbe potuto mettere in campo (il fondo versato dagli Stati membri è di soli 80 miliardi di euro che possono salire a 700 ricorrendo al mercato; il limite della somma erogata è però del 2% del PIL del Paese richiedente, cioè – nel caso dell’Italia – 35 miliardi): si è quindi spuntata la sola condizionalità ex ante di riservare il prestito alle spese sanitarie, peraltro in gran parte già affrontate nella prima fase dell’emergenza, ma - al solito - il diavolo si nasconde nei dettagli: nella bozza di Term Sheet, il contratto redatto dal direttore dal direttore generale Klaus Regling, spunta la clausola di una "sorveglianza rafforata" sui conti del Paese che chiederà di accedere al MES, sorveglianza affidata alla Commissione europea e alla BCE (in pratica la Troika con la sola assenza del FMI).
Si è poi passati a considerare la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) che ha capacità di erogazione pressoché illimitate, e a condizioni particolarmente favorevoli; i prestiti verrebbero concessi su progetti di investimento che riguardino la tutela dell’occupazione, la crescita economica e la mitigazione del cambiamento climatico e questa condizione – oltre al fatto che la BEI copre solo una parte dell’investimento, senza mai superare il 50% – ne limita sostanzialmente la fruizione (lo scorso anno i prestiti della BEI sono ammontati ad appena 64 miliardi di euro per finanziare progetti che ne costavano 230). A questi due strumenti ordinari la Commissione Europea ne ha aggiunto un altro: un fondo per le misure antidisoccupazione, il Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency).
Le linee di credito garantite da questi tre strumenti ammontano a circa 540 miliardi (240 dal MES, 200 dalla BEI e 100 dal Sure), cifra giudicata insufficiente da nove Paesi europei – tra cui Italia, Francia e Spagna – che hanno quindi chiesto l’introduzione di un nuovo strumento, i cosiddetti Eurobond o Coronabond, titoli di debito garantiti dal bilancio comunitario. I Paesi membri “virtuosi” si sono opposti alla loro introduzione sia nell’Eurogruppo, la riunione informale dei ministri delle Finanze, chiamato a discutere delle misure da intraprendere, sia nella successiva riunione del Consiglio europeo.
La motivazione ufficiale è stata che un nuovo strumento finanziario, richiedendo l’approvazione dei parlamenti dei singoli Stati membri, non avrebbe potuto essere preparato in tempo per affrontare l’emergenza, e fosse quindi più opportuno potenziare gli strumenti esistenti. Motivazione in realtà priva di fondamento, poiché l’approvazione dei parlamenti è dovuta solo nel caso di modifiche dei trattati, non per l’introduzione di un nuovo fondo (come è stato per il Sure) che possa essere finanziato dall’emissione di titoli di debito. La vera ragione era invece il timore della mutualizzazione del debito, che cioè gli Stati membri possano essere chiamati a coprire pro quota le perdite dovute all’eventuale insolvenza di uno Stato debitore. A dir il vero, la mutualizzazione del debito era già implicitamente esistente sia nelle erogazioni della BEI e del fondo Sure, ma ciò che spaventava era l’ammontare assai più ingente – circa 500 miliardi – degli Eurobond.
A questo punto i Paesi che avevano richiesto gli Eurobond si sono spostati sulla proposta francese della creazione di un Recovery Fund (dove gli Eurobond, cacciati dalla porta, sarebbero forse potuti rientrare dalla finestra), approvato nella riunione del Consiglio europeo dello scorso 23 aprile, ma senza stabilire né quanto né come finanziarlo, nonostante l’iperbolica affermazione della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen: “stiamo parlando di migliaia di miliardi, non di miliardi”.
A motivare ulteriormente la riluttanza di alcuni Paesi membri a finanziare il debito pubblico degli Stati più fragili dell’Unione è intervenuta la decisione della BCE di aumentare il programma di allentamento quantitativo (Quantitative Easing), cioè l’immissione di ingente liquidità sui mercati tramite le banche centrali nazionali, dai 240 miliardi – già decisi lo scorso anno ancor prima dell’insediamento di Christine Lagarde alla presidenza – ai 750 miliardi previsti per il 2020 dal Pandemic Emergency Purchase Programme.
Che futuro ci attende?
Considerato che parte dei miliardi emessi dalla BCE saranno solo una partita di giro, potendo la Banca Centrale ri-acquistare titoli emessi dalla BEI o dal Fondo Sure, e in attesa di conoscere la dotazione del fondo per la ripresa, occorre chiedersi se basteranno i poco più di mille miliardi garantiti dalle istituzioni europee ad affrontare la crisi economica e sociale dell’Europa. Sorprendentemente, tutti gli interessati sparavano cifre sulle erogazioni attese o richieste, ma nessuno aveva ancora calcolato quante risorse finanziarie fossero realmente necessarie. Lo ha fatto per primo il 4 aprile il centro studi di Unicredit, che ha previsto una contrazione del PIL italiano del 15%; dieci giorni dopo, il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato il suo trimestrale World Economic Outlook: la previsione del FMI è che nel 2020 il PIL mondiale subirà una riduzione del 3%, che diventa del 7,5% per i Paesi dell’Eurozona e del 9,1% per l’Italia. Sono cifre allarmanti, anche se probabilmente sottostimate: la premessa è che nell’anno in corso il numero di ore lavorate si riduca al massimo solo dell’8%, riduzione che verosimilmente sarà assai maggiore come conseguenza del lockdown prolungato di molte attività produttive.
In effetti lo stesso FMI a gennaio, prima dello scoppio della pandemia, paventava contrazioni del PIL ancora maggiori: del 6,3% per la produzione mondiale, dell’8,8% per quella nell’Eurozona e del 9,6% per quella italiana. La stessa Christine Lagarde, nel corso della succitata riunione del Consiglio europeo in videoconferenza, avrebbe paventato il rischio di una contrazione del 15% del PIL dell'Eurozona.
Nel Documento di Economia e Finanza (DEF) che il governo ha approvato il 24 aprile si stima una riduzione del PIL dell’8%, una contrazione dei consumi del 7,2%, un deficit che balzerà dall'1,6% al 10,4% ed un debito pubblico in salita dal 134,8% di fine 2019 al 155,7%.
Anche se assumiamo come più attendibile la stima del FMI, quanti miliardi verrebbero a mancare rispetto allo scorso anno? L’economia globale perderebbe 2.652 miliardi di dollari, due quinti dei quali nella sola zona Euro (1.036), mentre per l’Italia la riduzione sarebbe di 190 miliardi di dollari, pari a 176 miliardi di euro, cioè la cifra di quattro-cinque finanziarie. La riduzione del PIL non significa ovviamente solo riduzione della ricchezza di un Paese, ma anche contrazione delle entrate fiscali ed esplosione del rapporto debito/PIL. Ed eventuali stanziamenti decisi per questo ammontare servirebbero solo ad arginare la recessione, assorbendo nel debito pubblico tutto il debito privato, mentre occorrerebbe altrettanta liquidità per far ripartire l’apparato produttivo.
Is there no alternative?
Cosa significa tutto questo? Che, anche ammesso che i prestiti erogati dalle istituzioni europee prendano la bizzarra forma – recentemente proposta – delle obbligazioni “perpetue”, cioè senza scadenza, gli interessi sul debito ammonterebbero per l’Italia fra gli 8 e i 10 miliardi l’anno, che si aggiungerebbero ai 75-80 miliardi che già paghiamo per gli interessi sul debito attuale. Per l’Italia – e per molti altri Paesi europei – significherebbe l’insostenibilità del debito, l’impossibilità di rimborsare i titoli in scadenza e di accedere al mercato per emetterne di nuovi; i Paesi creditori forse potrebbero, a determinate condizioni, concedere una dilazione sulla scadenza dei ratei, ma non accetterebbero mai di concedere una vera ristrutturazione con la cancellazione di parte del debito accumulato dai Paesi in difficoltà; si creerebbe così una reazione a catena che porterebbe alla dissoluzione della moneta unica e a massicce svalutazioni delle nuove divise nazionali per ristrutturare un debito non più rimborsabile. E con l’Eurozona si dissolverebbe con tutta probabilità la stessa Unione Europea.
Dunque rimane solo questo scenario distopico nel nostro futuro? A mio avviso, una strada alternativa, seppure assai impervia, ci sarebbe. La Banca Centrale Europea ha un’autonomia decisionale maggiore di quella del Consiglio europeo, dove vige – per le decisioni rilevanti – l’obbligo dell’unanimità, mentre la BCE può assumere le medesime decisioni a maggioranza qualificata, cioè i due terzi dei voti favorevoli nel board dei governatori delle banche centrali. Inoltre la BCE in passato ha già operato al limite dei suoi obblighi statutari, con la moltiplicazione degli interventi di Quantitative Easing; mentre nell’erogazione dei prestiti non ha praticamente mai rispettato l’assurda, ma vigente (fino a pochi giorni fa) regola del Capital Key, cioè la possibilità di acquistare debito pubblico da uno Stato membro solo in proporzione alla sua partecipazione al capitale della BCE (con questa regola, la Germania avrebbe diritto al 27% delle erogazioni della Banca Centrale, somme di cui non ha bisogno, potendo emettere obbligazioni a interessi negativi).
Cosa potrebbe fare concretamente la BCE? Potrebbe adottare due politiche finanziarie: da una parte cancellare parte del debito dei Paesi più in difficoltà, dall’altra concedere loro linee di credito a interessi azzerati. Questo consentirebbe a Paesi come l’Italia – che da oltre vent’anni, con la sola eccezione del 2009, presenta annualmente avanzi di bilancio, vanificati dall’esorbitante cifra degli interessi in scadenza – di ridurre gradualmente il proprio debito pubblico e anche di spendere parte dell’attivo fra entrate e uscite in investimenti. Perché l’imposizione neoliberista dell’austerity ha cercato di far dimenticare che un aumento della spesa pubblica non si traduce in un parallelo aumento del deficit, in quanto la spesa – se ben indirizzata – fa crescere sia il PIL che le entrate fiscali, mentre la riduzione della spesa pubblica richiesta per rientrare nei parametri di Maastricht opera esattamente al contrario, cioè spinge alla recessione, facendo aumentare e non ridurre il deficit.
Se davvero la BCE adottasse queste misure applicherebbe, seppure in modo spurio, il principio base della Modern Monetary Theory: emettere tanto denaro quante serve al sistema, cioè monetizzare il debito. Il quale potrà essere ridotto in una fase successiva, dopo che il PIL sarà cresciuto e si potrà nuovamente agire sulla leva fiscale.
Quante possibilità ci sono perché ciò avvenga? Sempre a mio avviso, assai scarse: tutto sta a vedere se il “whatever it takes” di Christine Lagarde sarà all’altezza dell’analogo “whatever it takes” che il suo predecessore, Mario Draghi, dichiarò con forza – e con successo – nel 2012.
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Questo articolo è stato pubblicato anche su EuThink il 9 maggio 2020