Thomas Piketty: «Può la sinistra unirsi in Europa?»

 

Sapranno le forze progressiste europee unirsi e lavorare insieme per il comune obiettivo di riformare l’Europa rendendola più equa, solidale e democratica?


L’economista Thomas Piketty non è nuovo alle mission impossible: da anni denuncia la crescente disuguaglianza economica e sociale sia nei Paesi capitalistici dell’Occidente che nelle new entry come Cina, India, Giappone e Medio Oriente, con una manciata di miliardari che detiene oltre tre quarti della ricchezza del proprio Paese e che negli anni i ricchi – anche durante la crisi sanitaria ed economica del CoViD – siano diventati sempre più ricchi e noi che “siamo il 99%”, per citare il noto slogan dell’antropologo anarchico David Graeber, sempre più poveri.

La sua nuova missione impossibile è proporre alle forze progressiste europee di unirsi per elaborare una strategia comune e transnazionale da opporre alla globalizzazione del capitalismo finanziario, partendo dall’analisi di questi soggetti politici in Francia e in Germania.

Certo Piketty non si nasconde gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo obiettivo: in primo luogo il solito vizio dei piccoli partiti – soprattutto nella cosiddetta sinistra radicale – a ritenersi unici depositari della soluzione e della ricetta giuste (in Italia ne abbiamo numerosi esempi da decenni), rifiutando non solo la confluenza, ma anche la semplice convergenza verso i programmi di altre forze progressiste; in secondo luogo il diverso accento che tali forze pongono sulle priorità da dare al comune obiettivo di una riconversione ambientale e sociale dell’economia.

Negli ultimi tempi si è molto parlato del successo dei partiti ecologisti, ancora una volta con la sola eccezione nostrana: in Germania l’alleanza Bündnis 90/Die Grünen è diventata il secondo partito dopo CDU-CSU, sopravanzando la SPD, storica bandiera della socialdemocrazia tedesca.

Il movimento guidato da Annalena Baerbock e Robert Habeck ha saputo conquistare giovani e meno giovani, ceto medio e upper class, con un programma che è un mix tra ecologismo e modernizzazione della società: ai tradizionali temi ambientali ha affiancato la rivendicazione dei diritti civili (soprattutto per la presenza di Bündnis 90, partito nato nella Germania orientale come erede dei movimenti che si opponevano al regime comunista della DDR); ha proposto uno sviluppo sostenibile basato soprattutto sulla digitalizzazione dell’economia, che possa riformare e non contrapporsi al moderno capitalismo.

Sul piano transnazionale Die Grünen sono apertamente filo europeisti, considerando l’UE l’unico strumento in grado di garantire pace e prosperità al Vecchio Continente.

Sono soprattutto questi ultimi due aspetti (moderato liberismo e convinto europeismo) che allargano il divario da forze socialiste come Die Linke e avvicinano invece i Verdi tedeschi a una possibile, futura alleanza con i democratici cristiani della CDU-CSU ed, eventualmente, con i liberali della FDP (che finora l’hanno rifiutata solo perché vedono nei Grünen un temibile concorrente).

Anni luce separano poi i Verdi tedeschi dalla principale forza progressista in Francia, La France Insoumise, guidata dal vecchio socialista Jean-Luc Mélenchon.

LFI ha sempre rifiutato l’apparentamento con gli altri partiti progressisti francesi: nelle elezioni presidenziali del 2017 ha rifiutato di aderire a un Fronte popolare che riunisse comunisti, socialisti ed ecologisti in funzione anti Le Pen.

Anche in chiave europea non accetta contaminazioni con altre forze politiche, avendo rifiutato di entrare sia nel gruppo parlamentare socialista (Alleanza progressista di Socialisti e Democratici) che in quello verde (Verdi/Alleanza libera europea) e aderendo invece a quello della sinistra verde radicale (Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica). Il programma di LFI in Europa propugna una radicale revisione dei trattati per una democratizzazione dell’Unione, puntando in particolare sulla sostituzione dell’unanimità prevista per la maggior parte delle decisioni prese in seno al Consiglio europeo, cioè l’organo che riunisce i capi di governo degli Stati membri, con l’approvazione a maggioranza dei provvedimenti. Nel caso di un prevedibile rifiuto da parte dei Paesi più conservatori, Mélenchon propone un’opzione con qualche venatura sovranista: l’uscita dall’Unione e l’eventuale formazione di una seconda Europa, prevalentemente mediterranea, ricostruita su basi più eque e democratiche e che lasci maggiori spazi alla sovranità dei Paesi aderenti.

In Francia i 17 deputati di LFI – tutti preparati e in cui spiccano per competenza e combattività Adrien Quatennens, Clémentine Autain e François Ruffin – sono particolarmente attivi nel contrastare lo strapotere de La République en Marche di Emmanuel Macron che invece conta su 308 deputati all’Assemblée nationale e nel difendere i diritti dei lavoratori e la dignità del lavoro dall’ordoliberismo dei governi Philippe prima e Castex oggi, ma sono isolati rispetto agli altri partiti progressisti presenti in Parlamento, come i socialisti (30 eletti), i comunisti (10), gli altri partitini compresi sotto la definizione di Divers gauche (14) e all’unico eletto nelle liste verdi.

Anche in Francia, nelle recenti amministrative del giugno scorso, c’è stata una forte affermazione del partito ecologista EELV (Europe Ecologie-Les Verts) spesso in coalizione con i partiti di sinistra (specialmente nelle città tradizionalmente governate dalla destra), ma si è trattato più di una unione di necessità, di un cartello elettorale per sconfiggere l’egemonia delle destre che di un’effettiva condivisione di programmi o visioni politiche. Lo dimostra il caso di Parigi, dove la sindaca socialista uscente, Anne Hidalgo, è stata riconfermata, avendo l’appoggio del candidato verde David Belliard solo al secondo turno, ma ancora di più l’affermazione di Martine Aubry a Lille: al suo quarto mandato, la socialista Aubry ha superato per poche centinaia di voti proprio il candidato dell’EELV, Stéphane Baly. Significativa la motivazione con cui Martine Aubry, che inizialmente aveva dichiarato di non volersi ricandidare, ha motivato il suo ripensamento: “voglio portare a termine la transizione ecologica di Lille, che non potrà funzionare se dimentica la questione della giustizia sociale”.

È proprio questa contrapposizione fra una riconversione ambientale che non metta in discussione l’impostazione neoliberale europea propugnata dai Verdi e la necessità che transizione ecologica e giustizia sociale debbano andare di pari passo, alla base invece dei programmi dei partiti di sinistra, a rendere impervia la strada di un’unione delle forze progressiste europee auspicata da Thomas Piketty.

A ben guardare, poi, è lo stesso approccio di Piketty a rendere improbabile l’unione come da lui proposta: innanzitutto l’aver incluso nel suo concetto di sinistra i Verdi, imprescindibile forza progressista, ma troppo poco impegnata su temi quali la riduzione delle disuguaglianze, la giustizia sociale e la critica al neoliberismo imperante nella UE; in secondo luogo quando, nel proporre una Assemblea espressione di un’Europa federale (opzione avanzata da Francia e Germania all’inizio degli anni Novanta e bocciata già allora dai Paesi nordici e scandinavi) rinuncia a rivendicare un peso maggiore per il Parlamento europeo - temendo anzi che un suo potenziamento possa esautorare i parlamenti nazionali - Parlamento che invece è oggi l’unico organo dell’Unione eletto direttamente dai popoli europei.

Una riforma, altrettanto utopistica, che dia una maggiore rappresentatività al Parlamento europeo sarebbe non già – come propone Piketty – riempirlo di deputati selezionati fra gli eletti nelle rispettive assemblee nazionali, ma prevedere un’unica legge elettorale per tutti i Paesi membri, con liste transnazionali che rappresentino gli attuali gruppi parlamentari e affidino quindi agli elettori (e non ex post ai partiti nazionali) la possibilità di scegliere tra candidati popolari, socialisti, liberali, ecologisti, conservatori, di destra nazionalista o di sinistra radicale.

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Thomas Piketty: «La gauche peut-elle s’unir sur l’Europe?»

Nella sua rubrica su "Le Monde", l'economista deplora le divisioni dei partiti di sinistra europei sulla politica comune.


Jean-Luc Mélenchon (LFI)e Olivier Faure (PS) il 28 aprile all'Assemblea nazionale. David Niviere/AFP


di Thomas Piketty – Le Monde, 11 settembre 2020

In Francia come in Germania e nella maggior parte degli altri paesi, la sinistra è fortemente divisa sulla questione europea, e più in generale sulla strategia da adottare di fronte alla globalizzazione e alla regolamentazione transnazionale del capitalismo.

Con l'avvicinarsi delle scadenze nazionali (2021 in Germania, 2022 in Francia), molte voci chiedono che queste forze politiche si uniscano. In Germania, tuttavia, i tre partiti principali (Die Linke, la SPD e i Grünen) troveranno probabilmente difficile trovare un accordo, soprattutto sull'Europa, e alcuni già prevedono che i Grünen alla fine governeranno con la CDU. In Francia, le diverse forze hanno ricominciato a dialogare tra loro, ma non c'è garanzia per il momento che riescano a unirsi, soprattutto sulla politica europea.

Il problema è che ogni parte è convinta di avere ragione. Da parte de La France Insoumise (LFI), è facile ricordare che il Partito Socialista (PS) e i suoi alleati ambientalisti avevano già promesso, prima delle elezioni del 2012, di rinegoziare le regole europee. Tuttavia, non appena sono stati eletti, la maggioranza dell'epoca si è affrettata a ratificare il nuovo Patto di stabilità, senza cambiare nulla, per mancanza di un piano preciso su ciò che voleva realmente realizzare. Gli "insoumis” insistono anche sul fatto che i socialisti non hanno ancora indicato come la loro strategia e i loro obiettivi siano cambiati e come potrebbero portare a un risultato diverso la prossima volta. Va detto che le critiche sono giuste.

Ma dal lato del PS, dell'Europa-Ecologia-Verdi (EELV) e di altre forze non legate alla LFI (Génération.s, Partito Comunista, ecc.), si sottolinea che il piano degli "insoumis" per cambiare l'Europa è ben lungi dall'essere così preciso e convincente come essi sostengono e che Jean-Luc Mélenchon sembra a volte più interessato a criticare (o anche solo e semplicemente a abbandonare) l'attuale Unione Europea che non alla sua ricostruzione secondo linee social-federaliste, democratiche e internazionaliste. Purtroppo, anche questa critica non è falsa.

Una vera e propria Assemblea Europea

In teoria, dal 2017 la strategia di LFI si basa sull'articolazione di un "Piano A/Piano B". In altre parole, o convinciamo tutti gli altri paesi a rinegoziare i trattati europei (Piano A), oppure abbandoniamo i trattati esistenti e ne costruiamo di nuovi con un gruppo più ristretto di paesi (Piano B). L'idea non è necessariamente cattiva, se non che gli "insoumis" passano più tempo a minacciare l'uscita che a descrivere i nuovi trattati che vorrebbero proporre agli altri Paesi, sia nel Piano A che nel Piano B.

In concreto, LFI, come tutta la sinistra, ha difeso per molto tempo l'idea di un'armonizzazione sociale, fiscale e ambientale dall'alto verso il basso in Europa, che preveda la fine della regola dell'unanimità in materia fiscale e di bilancio. Il problema è che il LFI non dice quale organo democratico dovrebbe, a suo avviso, essere autorizzato a prendere tali decisioni a maggioranza.

Si potrebbe semplicemente proporre che d'ora in poi le decisioni fiscali in seno al Consiglio Europeo siano prese a maggioranza, con il rischio però di perpetuare un organismo opaco, che opera a porte chiuse e favorisce gli scontri fra i Paesi membri.

Un'altra soluzione sarebbe quella di dare l'ultima parola al Parlamento europeo, con il rischio, questa volta, di tagliare completamente fuori gli organi democratici nazionali. Una formula più innovativa sarebbe quella di istituire una vera e propria Assemblea europea basata su parlamentari nazionali in proporzione alla popolazione e ai gruppi politici.

È essenziale che vengano fatte
proposte specifiche ad altri Paesi

Siamo chiari: si tratta di questioni complesse sulle quali nessuno ha una soluzione perfetta. Un motivo in più per le diverse forze politiche per parlare tra loro ed elaborare insieme una strategia. In particolare, è essenziale che vengano fatte proposte specifiche ad altri paesi.

Infatti, anche se è improbabile che i 27 Stati membri accettino la fine della regola dell'unanimità fin dall'inizio, soprattutto Stati come i Paesi Bassi, che hanno fatto grande affidamento sul dumping fiscale [ cioè la concorrenza fiscale sleale tra paesi europei ndR], sarebbe comunque un po' seccante se la sinistra francese, quando si tratta di potere, non riuscisse a convincere almeno alcuni paesi (per esempio, Spagna o Italia) della possibilità di andare avanti insieme in questa direzione.

Regola della maggioranza

In ogni caso, è fondamentale dare la possibilità a vere e proprie proposte social-federaliste basate su assemblee transnazionali prima di arrivare a possibili sanzioni unilaterali contro i paesi che praticano il dumping (senza contare che tali sanzioni saranno più efficaci se applicate a più Paesi).

Sia la sinistra francese che quella tedesca
devono tener conto del fatto che l'Europa
del 2022 non sarà l'Europa del 2012

Infine, sia la sinistra francese che quella tedesca devono tener conto del fatto che l'Europa del 2022 non sarà l'Europa del 2012. In particolare, dovremo posizionarci in relazione al piano di ripresa adottato quest'estate, che, nonostante i suoi limiti, rappresenta una grande innovazione, soprattutto con il prestito congiunto di 390 miliardi di euro destinato a integrare i bilanci nazionali. Il suo principale difetto rimane la sua piccola dimensione (meno del 3% del PIL europeo) e la sua subordinazione alla regola dell'unanimità, che impedisce qualsiasi reattività e cambiamento di rotta.

Va notato, per inciso, che il piano non è ancora stato ratificato dai parlamenti nazionali, che di fatto hanno un diritto di veto. Anche in questo caso, per andare oltre, sarà necessario passare alla regola della maggioranza, idealmente nel quadro di una vera e propria Assemblea europea, anche se ciò significa andare avanti con un sottoinsieme di paesi.

Quel che è certo è che c'è un urgente bisogno di superare vecchie dispute e false certezze e di uscire da questa situazione in cui ogni fazione di sinistra pensa di poter avere ragione dell'Europa da sola.

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Aggiornamento della redazione di Quasi un blog

L’articolo è stato pubblicato su Le Monde venerdì 11 settembre scorso; martedì 15 settembre Piketty lo ha commentato sulla sua pagina Facebook e ripubblicato sul suo blog sia in francese che in inglese. Ha anche aggiunto un grafico, tratto dal suo ultimo libro Capitale e Ideologia e basato sui referendum tenutisi in Francia per approvare il Trattato di Maastricht (1992) e il progetto di Costituzione europea (2005): in entrambi i casi gli euroscettici sono stati i francesi con più basso reddito, istruzione e ricchezza, mentre i cittadini con il reddito, il livello di istruzione e il patrimonio più elevati hanno votato per l’approvazione sia del Patto di stabilità (passato con il 51%) che della Costituzione (che invece ha ricevuto solo il 45% dei voti favorevoli). Va anche sottolineato come, nei tredici anni che separano i due referendum, la disaffezione verso l’Unione Europea sia cresciuta, come testimoniato dalle curve del 2005, tutte posizionate più in basso di quelle del 1992.

Di seguito la traduzione del commento pubblicato sulla pagina Facebook dell’economista:

La sinistra può unirsi su #Europa?
Sì, ma solo se usciamo da vecchie dispute e da false certezze. È tempo che le diverse frazioni della sinistra si parlino e costruiscano insieme un programma ambizioso per cambiare l'Europa.

Questo invece il grafico sulla ripartizione dei voti a favore dei due referendum in base al reddito, all’istruzione e alla ricchezza dei votanti.

LEGENDA:

  • nel 1992 si è tenuto in Francia un (non necessario) referendum popolare sulla ratifica del Trattato di Maastricht o Trattato dell’Unione Europea. I voti favorevoli furono il 51,04%;

  • nel 2005 si è tenuto in 18 dei 27 Paesi membri dell’UE un referendum per l’approvazione di una Costituzione Europea. Il progetto, approvato in Italia e in altri 15 Paesi, fu bocciato sia dai Paesi Bassi che dalla Francia (con solo il 45% dei voti favorevoli). Il progetto di dotarsi di una Costituzione europea fu abbandonato e l’UE si limitò a una revisione dei Trattati esistenti con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009;

  • sull’asse delle ordinate (retta verticale) sono riportate le percentuali di voti favorevoli nei due referendum suddividendo i votanti per reddito, istruzione e ricchezza;

  • sull’asse delle ascisse (retta orizzontale) sono riportati i dieci decili dei votanti: il primo decile (D1) rappresenta il 10% dei votanti con minore reddito, minore istruzione o minore ricchezza; i decili successivi indicano gruppi che rappresentano sempre il 10% del totale con reddito, istruzione o ricchezza via via crescenti; l’ultimo decile (D10) rappresenta i votanti con più alto reddito, istruzione e ricchezza.

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Thomas Piketty è un famoso economista francese. Autore del ponderoso Il capitale nel XXI secolo (2014) sulla concentrazione e la distribuzione della ricchezza negli ultimi 250 anni, ha pubblicato più recentemente Capitale e Ideologia (2019), uno studio sulle ideologie che giustificano alti livelli di disuguaglianza nel tempo. È Direttore degli studi dell' Ecole des hautes études en sciences sociales, Ecole d’économie de Paris

Nell’immagine di apertura, a sinistra il leader de La France Insoumise Jean-Luc Mélenchon e, a destra, Annalena Baerbock e Robert Habeck, co-presidenti della Bündnis 90/Die Grünen

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