Tutti si chiedono quando

 


“Quando sarà trovato un vaccino efficace, la domanda sarà maggiore dell’offerta. Domanda eccessiva e competizione stanno già creando un nazionalismo del vaccino con il rischio di un prezzo gonfiato”


(Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms)



La pandemia di Covid-19 ha colto impreparate le istituzioni, i servizi sanitari, l’opinione pubblica di tutto il mondo. Dopo un’iniziale sottovalutazione dell’infezione, derubricata a “poco più di un’influenza”, il moltiplicarsi dei casi e dei ricoveri ospedalieri, i tanti contagiati che dal pronto soccorso passavano direttamente nei reparti di terapia intensiva, i decessi delle persone ricoverate con sintomi severi, ha giustamente allarmato la popolazione che chiedeva alla scienza medica un farmaco in grado di guarire dall’infezione virale e di bloccarne la diffusione.

Si trattava però di un virus sconosciuto per il quale non esistevano farmaci; se ne sono sperimentati alcuni sviluppati per altre patologie, talvolta in associazione fra loro: i risultati, in alcuni casi, sono stati promettenti, ma la remissione della malattia era più frequente nei casi individuati precocemente e non ancora colpiti da sintomi severi. Dunque ci si è rivolti all’ultima speranza per riuscire a gestire una pandemia ormai fuori controllo: il vaccino.

Com’è noto, il vaccino è costituito di solito dallo stesso virus – o parte di esso – depotenziato per essere iniettato in un organismo sano in modo da stimolarne una reazione immunitaria con lo sviluppo di anticorpi specifici. Per questo motivo il suo sviluppo prevede tempi lunghi, spesso di anni, e rigide procedure per garantirne l’efficacia e la sicurezza.

La corsa al vaccino è diventata da subito una competizione fra Stati (con l’orgogliosa rivendicazione del vaccino che veniva sviluppato “anche” con la partecipazione di un qualche istituto di ricerca nazionale) e alcuni governi – come quello americano – hanno cercato perfino di acquisire un’impossibile esclusiva sul suo utilizzo. Questi stanziamenti economici perseguono inoltre una finalità geopolitica: oggi la corsa al vaccino ha sostituito la corsa allo spazio del secolo scorso nella disputa fra USA – Russia – Cina per la conquista del primato nel prestigio mondiale.



Russia e Cina hanno sicuramente speso somme ingenti erogate, rispettivamente, all'istituto di ricerca Gamaleya per la realizzazione del vaccino Sputnik V e alla CanSino Biologics che sta sviluppando l’Ad5-nCoV assieme all’Istituto di biotecnologia dell’Accademia delle scienze mediche militari, ma – essendo entrambi centri di ricerca pubblici – ne possono controllare la produzione e la distribuzione.

Nei paesi occidentali invece la ricerca è finanziata prevalentemente con fondi pubblici, mentre il suo sfruttamento economico, attraverso la sua produzione, è lasciato interamente all’azienda farmaceutica che lo commercializza.

Gli Stati Uniti sono stati fra i primi a impegnare grosse somme per la ricerca di un vaccino Covid. Con quasi 10 miliardi di dollari è stata finanziata quella che il Ministero della Salute statunitense ha battezzato Operation Warp Speed (che in italiano potremmo sommariamente tradurre in “Operazione abbattimento della curva”, intendendo quella dei contagi): due terzi della somma sono gestiti dall'Autorità federale per la Ricerca Avanzata e lo Sviluppo Biomedico (Biomedical Advanced Research and Development Authority, BARDA), agenzia federale che finanzia i centri di ricerca impegnati nello sviluppo del vaccino, mentre un terzo è gestito direttamente dall’altra agenzia federale, gli Istituti Nazionali della Salute (National Institutes of Health - NIH), che li ha impiegati nei propri istituti di ricerca.


Quanta parte di questo investimento è finito nelle casse delle aziende farmaceutiche, soprattutto in quelle delle grandi multinazionali note per appartenere al cosiddetto gruppo Big Pharma? Fra marzo e agosto, nell’ambito dell’Operation Warp Speed il governo federale ha finanziato:

  • la multinazionale statunitense Johnson & Johnson che sta sviluppando un suo vaccino con la controllata società olandese Janssen Vaccine, con un miliardo e 956 milioni di dollari, richiedendo in cambio una fornitura di centomila dosi del vaccino una volta prodotto (queste dosi, afferma l’amministrazione Trump, saranno distribuite – come le successive – gratuitamente o a basso costo ai cittadini americani appena disponibili);

  • l’azienda biotech statunitense Moderna (che sta sviluppando il vaccino con la collaborazione dell'Istituto nazionale per le malattie infettive americano, guidato dal virologo Anthony Fauci) con 955 milioni di dollari;

  • l'azienda biofarmaceutica svedese-britannica AstraZeneca, che lavora con l'istituto di ricerca dell'Università di Oxford, con un miliardo e 200 milioni di dollari, prenotando trecentomila dosi del vaccino; anche l’Unione Europea ha firmato un contratto con AstraZeneca per l’acquisto di quattrocentomila dosi da destinare al mercato europeo; analogo accordo è stato recentemente concluso dall’Australia;

  • la società farmaceutica americana Regeneron Pharmaceuticals con 450 milioni di dollari. Nell’accordo concluso con la Regeneron l'Autorità federale per la Ricerca Avanzata e lo Sviluppo Biomedico ha accettato di pagare l'80% dei costi per lo sviluppo e la produzione del candidato vaccino, senza alcun obbligo che il prodotto finale sia accessibile;

  • la società biotecnologica americana Novavax con un miliardo e 600 milioni di dollari;

  • la multinazionale farmaceutica statunitense Pfizer che – con la collaborazione del gruppo cinese Shanghai Fosun Pharmaceutical – ha affidato lo sviluppo di un vaccino alla società tedesca BioNTech, con un miliardo e 950 milioni di dollari, con la fornitura assicurata delle prime centomila dosi di vaccino;

  • la multinazionale francese Sanofi in collaborazione con la britannica GlaxoSmithKline's (GSK) con 2 miliardi di dollari e la prenotazione delle prime centomila dosi di vaccino. Quando l’amministratore delegato di Sanofi, Paul Hudson,ha fatto trapelare la notizia della prelazione statunitense, il presidente Macron è prontamente intervenuto, stanziando 100 milioni di euro, oltre a confermare la collaborazione degli istituti di ricerca pubblici nello sviluppo del vaccino, per garantire la fornitura delle sue dosi prioritariamente ai cittadini francesi.

Il denaro dei contribuenti americani non finanzia soltanto lo sviluppo dei vaccini: un promettente farmaco sperimentale per il trattamento del coronavirus, il remdesivir, è stato sviluppato con l'aiuto della ricerca finanziata dai contribuenti, ma è l’azienda statunitense di biofarmaceutica Gilead Sciences, specializzata nella produzione di farmaci antivirali per il trattamento dell'HIV, dell'epatite e dell'influenza, a detenerne i diritti di sfruttamento.

A fine giugno Daniel O'Day, amministratore delegato di Gilead Sciences, ha annunciato che il farmaco avrà un prezzo di 390 dollari per fiala; poiché il trattamento standard prevede sei fiale iniettate in cinque giorni, il costo complessivo della terapia sarà di 2.340 dollari per ogni paziente. Nei paesi in via di sviluppo, grazie ad alcuni accordi siglati con produttori di farmaci generici, la Gilead Sciences fornirà il trattamento a base di remdesivir a un non meglio precisato “costo sostanzialmente inferiore”. Tutto questo avendo come priorità il profitto aziendale, non il ruolo rilevante che il finanziamento pubblico ha avuto nello sviluppo del farmaco.

La questione della sproporzione fra investimenti pubblici nello sviluppo dei vaccini e garanzia di una sua distribuzione a prezzi contenuti è stata affrontata inizialmente da un articolo uscito sul New York Times il 15 marzo scorso, firmato dalla strana coppia composta da Mariana Mazzucato, economista, e da Azzi Momenghalibaf, esperta di sanità pubblica nell’organizzazione filantropica Open Society. Qualche giorno dopo è stata ripresa in un altro articolo pubblicato dalla rivista The Scientist il 23 marzo da due economisti italiani, Emiliano Brancaccio e Ugo Pagano.


Nell’articolo del New York Times le due autrici, dopo aver ricordato che l’amministrazione federale americana è impegnata nel finanziamento della ricerca sul coronavirus già dall’epidemia del SARS-CoV del 2003, affermano che, in qualità di leader mondiale nel finanziamento pubblico della ricerca biomedica, il governo degli Stati Uniti ha la straordinaria opportunità di stabilire un precedente per garantire che i farmaci sviluppati con finanziamenti pubblici siano disponibili a prezzi accessibili al pubblico.

Il Segretario alla Sanità Alex Azar ha recentemente dichiarato di non poter garantire che i trattamenti o i vaccini per il coronavirus siano accessibili, nonostante i notevoli investimenti dei contribuenti nel loro sviluppo. Di fronte alla reazione dell'opinione pubblica, Azar ha poi fatto marcia indietro, anche se non ha chiarito come l’amministrazione intenda perseguire questa garanzia.

Una possibile prospettiva è stata indicata da 46 membri del Congresso in una lettera aperta al Presidente il 20 febbraio scorso: pretendere che i vaccini e i trattamenti per il coronavirus sviluppati con il denaro dei contribuenti siano prodotti senza dare una licenza esclusiva ai produttori privati.

L’articolo prosegue ricordando che “ciascuno dei 210 nuovi farmaci approvati dalla Federal Drug Administration dal 2010 al 2016” ha usufruito di finanziamenti dai National Institutes of Health, ma che questo contributo non ha influenzato il prezzo dei farmaci. Tra le ragioni della libertà concessa alle aziende farmaceutiche di fissare il prezzo dei farmaci c'è “una convinzione radicata, ma sbagliata che il settore privato sia il principale motore dell'innovazione e che dovrebbe raccoglierne tutti i frutti”.

Qui è evidente l’impronta di Mariana Mazzucato che ricorda come le grandi aziende farmaceutiche – per esempio Johnson & Johnson e Pfizer – si concentrino invece sempre meno sulla ricerca e preferiscano acquisire piccole aziende biotecnologiche che abbiano sviluppato promettenti farmaci grazie a finanziamenti pubblici, e ripropone la sua ricetta della collaborazione fra settore pubblico e privato come vero motore dell’innovazione e della tutela degli interessi collettivi: “gli Stati Uniti hanno bisogno di un sistema in cui il settore pubblico e quello privato lavorino insieme. Non si tratta di attaccare Big Pharma, ma di recuperare l'attenzione per la salute e l'interesse pubblico in un'industria che per troppo tempo è stata guidata dal profitto.”

Su The Scientist i due economisti italiani lanciano invece direttamente un appello alla comunità scientifica internazionale perché diano vita a “una condivisione collettiva delle conoscenze scientifiche sulla pandemia” in modo da contrastare “la speculazione privata nella ricerca su COVID-19”.

Per sostenere economicamente l’istituzione di “un'agenzia di ricerca pubblica internazionale per coordinare meglio gli scienziati e aumentare la velocità e l'efficacia delle nuove ricerche” Emiliano Brancaccio e Ugo Pagano propongono l’attivazione di alcune misure economiche:

  • l’acquisto pubblico di tutti i diritti di proprietà intellettuale legati alla ricerca contro il coronavirus, in modo da metterli “gratuitamente a disposizione della comunità scientifica internazionale”;

  • l’attivazione di un sistema di “ricompense pubbliche per tutti i ricercatori che condividono le loro conoscenze, anche parziali, nella lotta contro il virus”;

  • l’imposizione di nuove tasse sui diritti di proprietà intellettuale per scoraggiare i brevetti restrittivi e l’eventuale segretezza posta su ricerche inerenti la lotta contro il virus;

  • l'emissione di obbligazioni acquistate direttamente dalle banche centrali, per una percentuale pari a un quarto del PIL di ogni Paese avanzato, per finanziare complessivamente il progetto.

È difficile non riconoscere l’aspetto provocatorio di queste proposte economiche di così improbabile realizzazione, ma il sostegno economico pubblico – che Mazzucato e Momenghalibaf affidano al governo statunitense, mentre Brancaccio e Pagano attribuiscono all’insieme dei Paesi mondiali – è fondamentale per consentire il dispiegarsi di quella solidarietà scientifica che è alla base stessa della ricerca scientifica e tecnologica e, contestualmente, anche la principale arma per combattere il virus.

“Si tratta di una grande sfida collettiva, che riguarda la salute, la scienza, la tecnologia e l'economia. È anche una lotta contro idee antiquate e interessi privati precostituiti. Condividere pubblicamente le conoscenze scientifiche e tecniche significa vincere la battaglia contro il virus.”

Com’è noto, nessuna delle strade suggerite nei due articoli è stata imboccata: Donald Trump ha bisogno di poter raggiungere il traguardo della corsa al vaccino prima del voto di novembre, al fine di assicurarsi la rielezione, mentre nella comunità internazionale ha prevalso il consueto egoismo nazionale e ciascun Paese si è mosso per proprio conto.

Lo scenario più probabile è quello prospettato recentemente dalla rivista Nature: i Paesi più ricchi si sono già assicurati 2 miliardi di dosi, acquistati a scatola chiusa perché “ancora non abbiamo prove provate della loro efficacia”, rendendo più difficile ai Paesi più poveri un accesso equo al vaccino. La situazione ricorda l'epidemia di influenza H1N1 del 2009, quando una manciata di paesi ricchi si assicurarono la maggior parte delle forniture del vaccino.

Pur considerando che la maggior parte dei vaccini allo studio prevede la somministrazione di due dosi, molti Paesi hanno prenotato quantità di vaccino superiori alle loro necessità:

  • la Gran Bretagna ha acquistato 340 milioni di dosi, l'equivalente di cinque somministrazioni pro capite;

  • gli Stati Uniti – con una popolazione di 328 milioni di abitanti – si sono già assicurati 800 milioni di dosi, con un'ulteriore opzione per l'acquisto di un altro miliardo;

  • altre centinaia di milioni di dosi sono state acquistate dai Paesi dell'Unione europea e dal Giappone.

Il principale sforzo internazionale per assicurare le forniture di vaccini è un fondo comune chiamato COVAX, istituito da Gavi, un'organizzazione internazionale nata per garantire l'accesso ai vaccini ai bambini che vivono nei paesi più poveri del mondo, dalla Coalizione per le Innovazioni nella Prevenzione delle Epidemie (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations CEPI) e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. L’obiettivo di COVAX è garantirsi un miliardo di dosi di vaccino – gratuitamente o a prezzo contenuto – per i 92 Paesi più poveri che comprendono oltre la metà della popolazione mondiale e un altro miliardo per i 75 paesi più ricchi, che pagheranno i vaccini a prezzo pieno.

COVAX ha già fatto alcuni ordini – come l’accordo con AstraZeneca per l'acquisto di 300 milioni di dosi – ma è ben lungi dal raccogliere i circa 18 miliardi di dollari che, secondo le sue stime, saranno necessari per procurarsi i 2 miliardi di dosi. Alcuni paesi più ricchi, come il Regno Unito, hanno espresso interesse ad aderire a COVAX, ma pochi si sono impegnati a farlo davvero.

Eppure dovrebbe essere chiaro che il nazionalismo dei vaccini non è la soluzione per sconfiggere l’epidemia. “La pandemia è una sfida di salute globale – ricorda l'infettivologo Stefano Vella – e pensare solo a quello che accade a casa propria è una strategia miope che si rivelerà perdente. Covid va spento in tutto il mondo, oppure non si spegnerà mai. Posso vaccinare tutta la popolazione del mio Paese, ma il virus continuerà a circolare nel resto del mondo continuando a rappresentare una minaccia".

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