Sintomi morbosi: nella Storia dell'Europa di ieri i segnali della crisi di oggi

 


“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.”


Il titolo parafrasa quello dell’ultimo libro dello storico Donald Sassoon che, a sua volta, ha tratto spunto dalla succitata frase dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci.

1989: l’Europa e la dissoluzione dell’Unione Sovietica

Trent’anni fa si consumò un evento che si può giustamente considerare una svolta della nostra Storia recente: la dissoluzione dell’Unione sovietica, il cui atto simbolico finale fu l’abbattimento del Muro di Berlino. Non si trattò della fine della storia come impropriamente fu affermato, ma sicuramente di un evento epocale: la fine della contrapposizione fra i due blocchi e l’abbandono dell’ormai indifendibile esperienza del socialismo reale sembrò consegnare le chiavi del futuro alla democrazia liberale e all’economia di mercato dei Paesi europei occidentali.

La conseguenza più rilevante per l’Europa fu la riunificazione delle due Germanie, vista con apprensione dai governi francese, britannico e italiano che ricordavano il recente tragico passato della Grande Germania (è rimasta famosa la frase che Mikhail Gorbaciov attribuì a François Mitterrand: “Amo talmente la Germania, che preferisco averne due”)

Come reazione, la riunificazione della Germania spinse a un’accelerazione del processo di integrazione europea, per bilanciare il peso crescente tedesco all’interno dell’allora Comunità Economica Europea. Un processo che aveva già avuto due momenti importanti nel decennio precedente: nel 1979 il Parlamento della CEE era stato eletto per la prima volta direttamente dai popoli dei dodici Paesi aderenti e nel 1985 cinque Paesi membri (Belgio, Germania, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi) avevano firmato un accordo nella cittadina lussemburghese di Schengen, accordo che prevedeva una eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni. Entrambi i passi avevano una notevole rilevanza politica, superando l’ambito esclusivamente economico cui si era fino ad allora attenuta la Comunità europea: il Parlamento diventava la sede della rappresentanza politica delle popolazioni degli Stati membri, mentre l’Accordo di Schengen – che fu perfezionato cinque anni dopo con apposita convenzione applicativa – era prova provata che misure economiche potevano dare vita a un risultato politico: la libera circolazione delle merci e dei capitali aveva portato alla libera circolazione delle persone all’interno della Comunità.

Da Schengen a Maastricht

In questo processo alcuni Paesi – in primis Francia e Germania – proposero l’obiettivo di un’Europa federale, i cui primi passi sarebbero dovuti essere una politica estera e una difesa comuni, ma incontrarono la ferma opposizione della Gran Bretagna, dell’Olanda e dei Paesi Scandinavi, oltre che della Spagna che invece proponeva di continuare a limitare l’azione della Comunità al solo ambito economico.

L’integrazione europea divenne il frutto di un compromesso, dove furono esclusi gli aneliti federalisti, mentre quelli per una difesa e una politica estera comune furono ridimensionati a mere dichiarazioni di intenti. Anche la solenne definizione dei valori e dei principi comuni cui si ispirava l’azione degli Stati membri (e a cui dovevano attenersi quelli che aspiravano a diventarlo) rimasero soprattutto sulla carta. La nascente Unione non aveva infatti né risorse né strumenti per attuare una vera e propria politica comune, in quanto il bilancio europeo fu aumentato in modo irrisorio e venne esclusa qualsiasi politica fiscale comune. Furono invece definiti con precisione i parametri finanziari cui dovevano tendere i Paesi membri nel rapporto debito/PIL e nel contenimento del deficit.

L’esito di questo compromesso fu la firma nel 1992, nella cittadina universitaria olandese di Maastricht, del Trattato istitutivo dell’Unione Europea.



Verso un’unione economica e finanziaria

Fin dall’inizio, la neonata Unione europea si è caratterizzata quindi soprattutto sotto il profilo di una integrazione economica e finanziaria, con un mercato comune che garantisse la piena libertà di circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e dei lavoratori. L’egemonia del connotato finanziario della nuova Unione veniva poi confermata dall’inserimento nel Trattato del successivo obiettivo da perseguire: entro il 1999 si sarebbe dovuto arrivare alla creazione di una banca centrale e di una moneta comune.

Contestualmente, l’allargamento dei confini dell’Unione, passata in poco più di dieci anni da dodici a ventisette membri, non ha comportato un aumento del peso politico dell’Europa sullo scacchiere internazionale né un rafforzamento per gli organi comunitari della funzione di guida e di coordinamento delle politiche nazionali: il ruolo del Parlamento europeo, unico organismo eletto direttamente dai popoli europei, pur mantenendo l’assemblea nominalmente la rappresentanza di tutti i cittadini dei Paesi membri, è stato via via ridimensionato dalla Commissione europea e, soprattutto, dal Consiglio europeo, organi che invece rappresentano in seno all’Unione gli Stati membri.

Oggi le decisioni più importanti sul futuro dell’Europa, sia riguardo le tematiche economiche che quelle sociali o politiche, sono prese dai capi di governo dei Paesi membri, riuniti nel Consiglio europeo. Quasi tutte le decisioni devono essere prese all’unanimità – nonostante si siano succeduti negli anni gli inviti a passare all’approvazione a maggioranza qualificata, l’ultimo dei quali contenuto nel recente discorso sullo Stato dell’Unione tenuto da Ursula von der Leyen – e questo comporta inevitabilmente la ricerca costante di un compromesso al ribasso o la rimozione di un problema se comporta il rischio di una contrapposizione interna.

Un esempio per tutti è l’atteggiamento europeo nei confronti dell’immigrazione. Una riforma del cosiddetto sistema di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti asilo, accordo che oggi penalizza soprattutto i Paesi mediterranei, era stata approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento europeo: prevedeva il rafforzamento del sistema dell’asilo e la condivisione delle responsabilità fra tutti i paesi UE e proponeva per i Paesi che si fossero rifiutati di accogliere la loro quota di richiedenti asilo la perdita dei finanziamenti europei. Questa riforma non è mai stata presa in considerazione dal Consiglio europeo: ciò comporta che ancora oggi l’accoglienza dei richiedenti asilo e, prima ancora, il loro salvataggio in mare sono affidati alla buona volontà dei Paesi membri. Non tragga in inganno il recente accenno all’accoglienza dei migranti fatta sempre nel discorso sullo Stato dell’Unione, accenno salutato dai media come il superamento degli accordi di Dublino; in realtà si tratta di un progetto, ancora da sottoporre all’approvazione del Consiglio europeo, che ha obiettivi assai più limitati: l’accoglienza dei rifugiati rimane su base volontaria, affidata a quegli Stati membri che intendano sollevare in parte i Paesi mediterranei di prima accoglienza dal farsi carico dei richiedenti asilo; a chi rifiuta di accoglierli verrà richiesto di partecipare alla spesa necessaria per il rimpatrio dei non aventi diritto. Già il fatto di mettere sullo stesso piano accoglienza e rimpatri qualifica l’estrema moderatezza della proposta, ma è probabile che anche il concorso alle spese per i rimpatri non venga approvato dai Paesi membri contrari all’immigrazione.

Passaporti lettoni per cittadini e “non cittadini” - © Foto Michele Lapini

In questi anni poi si è a volte sacrificata la difesa dei valori fondanti dell’Unione europea a valutazioni geopolitiche. Nel 2004 sono stati ammessi come Paesi membri l’Estonia, la Lituania e la Lettonia che però non avevano propriamente le carte in regola per accedere all’UE. Tutti e tre gli Stati baltici violavano il principio di “non discriminazione” per “l’appartenenza a una minoranza nazionale” e quello del rispetto della “diversità culturale, religiosa e linguistica.” (articoli 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali UE, 2000) dal momento che negavano la cittadinanza alla minoranza russofona nei rispettivi Paesi. L’Unione europea ha considerato superata la discriminazione nei confronti di una minoranza linguistica (in realtà dettata da pregiudizi politici, retaggio dell’occupazione sovietica) dalla concessione, da parte dei tre Paesi, della cittadinanza a chi superasse un severo esame di apprendimento della lingua ufficiale.

Analogamente, la violazione sistematica dello stato di diritto, dei principi della libertà di stampa e di espressione, dell’indipendenza della magistratura, dei diritti umani di cui si sono resi responsabili Paesi membri come Ungheria, Polonia e Romania hanno prodotto solo sterili ammonimenti e lo stanco avvio di procedure di infrazione, invece del ricorso – previsto dai Trattati – di una decurtazione degli aiuti finanziari.

La crisi dell’Unione Europea di oggi: il definitivo addio a Ventotene?

Tutto ciò – unito invece all’occhiuto controllo degli organismi europei, specialmente nei Paesi dell’Eurozona, sulle politiche di spesa dei singoli Paesi membri, dovuto alla scelta di creare una unione europea prettamente economico finanziaria – ha portato a una generale disaffezione dei cittadini nei confronti dell’Europa e, in molti casi, ad un esplicito euroscetticismo.

Oggi, come dimostrano gli innumerevoli sondaggi su questo tema, la maggior parte dei cittadini europei considera le istituzioni europee una minaccia per la sovranità del proprio Paese e vede nell’Europa un lontano tiranno che impone (“ce lo chiede l’Europa”) una penosa austerità in nome dell’astratto concetto dei “conti pubblici in regola”; un luogo dove una manciata di burocrati in una riunione segreta (come quelle del cosiddetto Eurogruppo, organismo neppure previsto dai trattati) decidono del futuro di interi popoli; un’area dove la competizione ha sostituito una presunta solidarietà fra Stati; dove i Paesi ricchi sfruttano i Paesi meno ricchi, rendendoli più poveri; dove la politica invece di arginare le ineguaglianze le fomenta; dove anonimi banchieri di Bruxelles decidono qual è il potere d’acquisto delle banconote che ciascuno custodisce nel proprio portafogli.

Per molti oggi l’Europa alimenta solo il rimorso di esserci entrati e il desiderio, qualora se ne avesse la possibilità, di uscirne. Il sogno di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi sembra sepolto per sempre, mentre i nomi di De Gasperi, Adenauer, Monnet e Schuman diventano sbiadite presenze nel libro della nostra storia.

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