Tutte le Regioni sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre


È davvero possibile un federalismo a Costituzione invariata? Il regionalismo differenziato è un primo passo in quella direzione o ne segna il definitivo abbandono?


Dal 1948 al 1956 Pietro Calamandrei, uno dei padri costituenti, ha denunciato il ritardo del Parlamento e, soprattutto, l’inerzia del partito allora dominante, la Democrazia Cristiana, nell’attivazione di organi di rilievo costituzionale previsti dalla Carta: la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura e l’ordinamento regionale. Mentre i primi due istituti saranno costituiti entro quel decennio, per “il più ampio decentramento amministrativo” previsto dall’articolo 5 e per l’istituzione delle Regioni, come articolazione della Repubblica (art. 114) occorrerà aspettare il 16 maggio del 1970, quando una legge ordinaria dette l’avvio al processo di decentramento amministrativo in Italia, processo nel quale le Regioni svolgeranno un ruolo fondamentale.

Il processo che ha regolato il passaggio delle funzioni dal Governo alle regioni e la definizione della potestà legislativa esclusiva o concorrente attribuita allo Stato e alle Regioni “sulla base dei princıpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” dettata dalla Costituzione (art. 118) è stato un processo lungo e travagliato che ha vissuto il suo momento fondamentale con la riforma costituzionale del Titolo V del marzo 2001, confermata dal referendum popolare nell’ottobre dello stesso anno.

Nonostante la motivazione principale della riforma fosse una decisione politica contingente dell’allora maggioranza di centrosinistra, cioè togliere terreno sotto i piedi alle spinte autonomiste (con più di una tentazione secessionista) della Lega Nord, non c’è dubbio che la legge costituzionale dette piena attuazione a quel “ federalismo a Costituzione invariata” già sancito nel 1997, che attribuiva alle autonomie locali un’azione di governo quanto più possibile vicina ai cittadini.

Nel’ultimo ventennio la riforma ha però mostrato sia luci che ombre.

Da una parte ha potenziato il peso politico dell’assemblea e del Presidente della Regione – quest’ultimo non a caso, seppure impropriamente, sempre più spesso ricordato come Governatore – che hanno determinato la politica regionale, spaziando dalla mobilità all’organizzazione sanitaria, dalla tutela ambientale al consumo di suolo, dalla regolamentazione delle attività produttive alla tutela del lavoro, dalla politica abitativa alla consultazione dei cittadini attraverso elezioni regolate da leggi elettorali autonome o il ricorso a referendum locali.

Dall’altra, specularmente, proprio l’aumentata importanza degli organi di governo regionale ha comportato, invece di una crescita regolare di un regionalismo solidaristico, l’incremento di un “ regionalismo asimmetrico”, un’ulteriore crescita del divario fra Nord e Sud del Paese e la richiesta da parte delle Regioni “più ricche” (non solo nei termini di contributo alla ricchezza nazionale, ma anche di maggiore solidità della struttura sociale ed economica e di maggiore efficienza di infrastrutture e apparato amministrativo) di margini sempre più ampi di autonomia legislativa e finanziaria.

Paradossalmente, la crescita differenziata rivendicata dalle Regioni ricche si è talvolta ritorta contro gli stessi protagonisti, come si è verificato nella recente emergenza sanitaria. La progressiva privatizzazione della sanità – che è fenomeno nazionale – ha avuto la sua realizzazione più piena in Lombardia e, a seguire, in Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto. Ebbene proprio queste Regioni, in conseguenza del depotenziamento della sanità territoriale, della carenza di personale sanitario e di recettività degli ospedali pubblici, si sono trovate più impreparate ad affrontare la pandemia di CoViD-19.

Va inoltre ricordato che l’asimmetria regionale la si riscontra anche nelle Regioni a statuto speciale che già godevano di una maggiore autonomia e di maggiori risorse finanziarie a tutela della loro specificità storica e culturale: pur a fronte di una spesa pro capite molto alta, il livello dei servizi offerti alla popolazione è assai maggiore nelle tre regioni settentrionali (Valle d’Aosta, Trentino – Alto Adige/Südtirol e Friuli Venezia Giulia) rispetto a quella largamente insoddisfacente nelle due Regioni insulari (Sardegna e Sicilia).

Il regionalismo asimmetrico o differenziato, ovvero l’aumento delle diseguaglianze fra Regioni più ricche (soprattutto settentrionali) e più povere (soprattutto meridionali), è il risultato di fatto dell’aumento delle autonomie locali registrato negli ultimi decenni, ma è stato l’articolo 116 del Titolo V, riformato nel 2001, che prevede esplicitamente la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta a peggiorare le cose. L’articolo prevede che possano essere riconosciute “ ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni su tutte le materie che la Costituzione attribuisce alla competenza legislativa concorrente, senza considerare che la maggiore autonomia, se concessa alle Regioni più ricche, avrebbe minacciato lo stesso equilibrio delle autonomie locali.

La richiesta di maggiore autonomia ex articolo 116 è stata avanzata da nove regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania. Mentre in Lombardia e in Veneto si è svolto un referendum nel 2017 che ha confermato la richiesta, in Emilia-Romagna e in Piemonte la richiesta è stata avanzata dalle rispettive assemblee regionali senza il ricorso alla consultazione popolare. Per queste quattro richiedenti si è giunti a una fase avanzata di intesa tra regioni e governo.

Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, non a caso nuovamente fra le Regioni più ricche, hanno richiesto la competenza esclusiva su tutte le 23 materie di competenza legislativa concorrente. Ciò comporta due aspetti preoccupanti che rischiano di aumentare esponenzialmente le differenze regionali.

Il primo riguarda le materie su cui si richiede un’autonomia rafforzata, alcune delle quali riguardano diritti costituzionalmente garantiti e tradizionalmente attribuiti al governo centrale come la tutela ambientale e la fruizione dei beni culturali, il diritto all’istruzione e quello alla salute.

Vero è che allo Stato rimane la competenza legislativa esclusiva per le norme generali su salute, istruzione, tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, ma il rischio è che un’interpretazione estrema della propria autonomia legislativa in tali ambiti possa, per esempio, portare una Regione a prevedere concorsi o selezioni per l’assunzione del personale docente o sanitario riservati aisoli suoi residenti.

Il secondo aspetto riguarda le maggiori risorse finanziarie che andrebbero garantite alle Regioni con autonomia rafforzata, in base al principio, confermato dalla giurisprudenza costituzionale, della necessaria correlazione tra aumento delle funzioni e aumento delle risorse. Questo comporterebbe un consistente trasferimento di finanziamenti alle Regioni più ricche a detrimento di una distribuzione più equa delle risorse fra tutte le Regioni, fin qui garantita dallo Stato.

Il problema è la difficile conciliazione tra i due aspetti previsti dall’articolo 119 della Costituzione sul finanziamento degli enti locali: tra il principio di territorialità delle imposte, cioè il diritto dei territori più ricchi ad avere una maggiore disponibilità di risorse, e l'istituzione di “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.

Anche il passaggio, nel definire l’ammontare dei trasferimenti finanziari alle Regioni, dalla cosiddetta “spesa storica”, cioè quanto la Regione ha speso negli anni precedenti per garantire un determinato servizio, ai “fabbisogni standard”, cioè l’ammontare delle risorse – determinato in base alla spesa media pregressa – necessario a finanziare i servizi sul proprio territorio, non esclude il rischio di un ulteriore aumento delle disuguaglianze. Regioni con maggiore capacità di spesa, già avvantaggiati dal meccanismo della spesa storica, lo sarebbero anche nel passaggio ai fabbisogni standard, potendosi basare – come già ricordato – su una maggiore efficienza nell’approvvigionamento e nella fornitura di beni e servizi, oltre che su una solida struttura sociale e produttiva. Il costo medio annuo per un posto letto ospedaliero o per un alunno che frequenti la scuola secondaria difficilmente sarà lo stesso in Emilia-Romagna e in Calabria, oppure in Lombardia e in Sardegna.

In conclusione, il passato e il presente della storia delle autonomie locali in Italia non fanno essere fiduciosi in un futuro sviluppo equo e solidale del processo di decentramento né che la concertazione fra Stato e Regioni possa evitare, soprattutto durante periodi di crisi economiche, l’accentuarsi di tentazioni di accentramento da una parte e di fughe centrifughe dall’altra.

Occorre quindi rassegnarsi a un ulteriore aumento del divario fra Nord e Sud del Paese? In realtà la riformulazione del Titolo V della Costituzione lascia pochi margini per una trattativa fra Stato e Regioni richiedenti l’autonomia rinforzata: se ne può rimandare l’attivazione, oppure cercare di estenderla a tutte le regioni, iniziando dalle altre cinque che ne hanno già fatto richiesta, attuando sì – in questo caso, ma con tempi prevedibilmente lunghi e con la necessità di adeguare la struttura amministrativa delle Regioni più carenti – un federalismo a Costituzione invariata.

C’è poi la possibilità di ricorrere a misure di compensazione attingendo alle risorse europee. Come ha chiarito il ministro per il Sud e la coesione territoriale Giuseppe Provenzano in un’audizione al Senato lo scorso 28 settembre, ha ricordato l’impegno del governo nell’affrontare la questione meridionale e il prossimo arrivo di ingenti risorse finanziarie dall’Unione Europea.

Quanto al primo punto, dal primo ottobre è in vigore la fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud, cioè un taglio del 30% nei contributi a carico dell’impresa per tutti i dipendenti la cui sede di lavoro si trova in una regione del Sud, misura che riduce il costo del lavoro senza comprimere i salari. Rimane il rischio che il risparmio ottenuto venga impiegato dagli imprenditori per aumentare i profitti, piuttosto che gli investimenti.

Quanto alle risorse finanziarie europee, dovrebbero essere destinate al Sud almeno 25 miliardi di euro di contributi a fondo perduto previsti dal Next Generation EU (come è stato ribattezzato il Recovery Fund), mentre sono disponibili da subito 8 dei 10 miliardi assegnati all’Italia dal React-EU, programma per la coesione territoriale le cui risorse sono state recentemente aumentate per far fronte all’emergenza coronavirus. Sul bilancio 2021-27 sono stati poi stanziati per il Sud Italia 37,5 di fondi strutturali europei cui si aggiungono – trattandosi di finanziamenti a progetti cofinanziati – circa 40 miliardi di erogazioni statali e regionali. Inoltre, il Fondo Sviluppo e Coesione, con cui l’Italia indirizza i contributi del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo Europeo di Sviluppo Plus provenienti dall’Unione europea, ha destinato al Mezzogiorno 59 miliardi di euro per il periodo 2021-27.

Un afflusso di risorse finanziarie dell’ordine di 140-150 miliardi di euro nei prossimi anni che però esigono un adeguamento delle infrastrutture e della struttura amministrativa delle regioni meridionali che troppo spesso in passato non sono riuscite a utilizzare i fondi europei erogati.

Lo ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: “i tempi degli investimenti pubblici [al Sud] sono più o meno il doppio del centro nord, il 30% degli investimenti pubblici è nel Mezzogiorno e il 70% delle opere incompiute è nel Mezzogiorno”. Per questo occorre “puntare sulla legalità e l’efficacia dell’azione pubblica, sia a livello locale che centrale”.

Gli ha fatto eco il ministro Provenzano: “abbiamo le risorse, abbiamo gli strumenti, ora dobbiamo attrezzare la nostra macchina pubblica a realizzarli. E dobbiamo suscitare le intelligenze dei luoghi, delle persone che li abitano, e che hanno il diritto di costruirsi il futuro. È la grande occasione dell’Italia. E finalmente, anche del Sud. Ora è compito di tutti, non solo del Governo, lavorare per non sprecarla.”

Una sfida impossibile? Forse, ma certamente vale la pena di impegnarsi a vincerla.

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