Al centro della nuova strategia della BCE

 


C’è bisogno di una nuova strategia della BCE che supporti la transizione ambientale e sociale


L’11 dicembre dell’anno scorso Ursula von der Leyen ha presentato al Parlamento europeo il nuovo Green Deal dell'UE con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, “non lasciando nessuno indietro”. Per l’Europa è il “nostro uomo sulla Luna”, ha detto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aggiungendo che questo primo pacchetto di proposte mira a conciliare “la nostra economia con il nostro pianeta”.

La Commissione intende raggiungere l'obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 di almeno il 50% entro il 2030 in tutta l’Unione Europea (il limite precedentemente fissato ad agosto era del 40%); tuttavia, secondo von der Leyen, “il Green Deal non riguarda solo la riduzione delle emissioni, ma è anche una nuova strategia di crescita europea”.

Il Green Deal prevede infatti un'ampia revisione della legislazione esistente in tutti i settori dell'economia, come i trasporti, l'energia, l'agricoltura e l'edilizia.

Sebbene nelle intenzioni dell’UE il piano debba essere finanziato da risorse provenienti dal proprio bilancio o reperite sul mercato (come nel caso del progetto Next Generation EU), l’adozione di questa nuova strategia avrà delle ripercussioni indirette anche sull’attività della Banca centrale europea.

Compito precipuo della BCE è quello di mantenere la stabilità dei prezzi nell’area Euro, preferibilmente vicino al livello di inflazione considerato ottimale (il 2% annuo). Per monitorare questa stabilità la BCE si serve della rilevazione dei prezzi di un paniere di beni e servizi che comprende anche la produzione e il consumo di energia .

Quest’anno, come conseguenza positiva della riduzione delle attività per la pandemia, è prevista una riduzione delle emissioni di CO2 nel mondo di circa l’8% rispetto al 2019, ma si è trattato di un abbattimento congiunturale, mentre nel prossimo decennio questa riduzione dovrebbe diventare strutturale se si vuole raggiungere l’obiettivo prefissato per il 2030 (peraltro il Parlamento Europeo, ritenendo insufficiente il livello del 50% fissato dalla Commissione, ha recentemente proposto di portare la riduzione al 55%). E per confermare questo abbattimento nei prossimi anni occorre gradualmente sostituire l’energia prodotta da combustibili fossili con quella prodotta da fonti rinnovabili. Per le politiche monetarie della BCE l’elevato costo dell’energia verde rispetto all’energia nera diventa una questione rilevante.

Nel suo articolo l’economista francese Hélène Rey afferma che, poiché lo sviluppo tecnologico degli impianti che sfruttano fonti rinnovabili non è in grado in tempi sufficientemente rapidi di abbattere i costi di produzione dell’energia pulita, rimane solo la strada di aumentare, attraverso la tassazione, il prezzo dei combustibili fossili. E qui entra in ballo la BCE che, come si è ricordato, adotta un indice dei prezzi che contiene anche quelli relativi all’energia: per mantenere la stabilità dei prezzi di fronte a un incremento del prezzo del petrolio e del gas, la Banca centrale non avrebbe altre alternative se non stimolare una riduzione dei prezzi degli altri beni, con rilevanti effetti distorsivi sul mercato.

C’è un’altra, inevitabile conseguenza di un aumento del prezzo dei prodotti petroliferi: i maggiori costi di produzione potrebbero indurre l’industria a diminuire la quantità di prodotti e, per ricaduta, la produzione totale nell'economia. Si verificherebbe in questo caso inflazione, non generata – come si ritiene solitamente – da un eccesso di liquidità del sistema e quindi da un eccesso di domanda, ma – al contrario – da un difetto nell’offerta aggregata, cioè dalla relativa scarsità di beni e servizi sul mercato.

La soluzione proposta da Hélène Rey è un radicale cambio di strategia per la BCE: passare nella valutazione dell’inflazione dall’economia reale a quella nominale ( che si basa sui prezzi correnti, non considerando cioè l’impatto dell’aumento dei prezzi) e abbandonare l’attuale indice dei prezzi e adottarne uno core, cioè un paniere depurato dei beni che presentano una forte volatilità di prezzo, come quelli energetici e alimentari.

Come si vede, si tratta di cambiamenti di non poco conto, assai più eversivi di quel whatever it takes di Draghi nel 2012 che tanto ha spaventato i banchieri tedeschi e quelli dei Paesi frugali.

© Hannelore Foerster / Getty Images


Al centro della nuova strategia della BCE

di Hélène Rey, 8 ottobre 2020 – Project Syndicate

LONDRA. Seguendo le orme della Federal Reserve statunitense, la Banca centrale europea ha avviato una profonda revisione della propria strategia di politica monetaria. Nel considerare modifiche sostanziali al loro approccio, però, le banche centrali dovrebbero sempre tenere a mente il rischio di turbative del mercato generate da proprie attività.

Ciò è ancora più vero nel caso di strategie volte ad affrontare il cambiamento climatico, uno dei problemi più gravi del nostro tempo. Dal momento che i paesi europei si sono impegnati ad azzerare l’impatto ambientale delle rispettive economie entro il 2050, la Bce deve ora riflettere su come il proprio assetto di politica monetaria potrebbe favorire tale transizione.

Sebbene il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea indichi nel mantenimento della stabilità dei prezzi l’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali (SEBC), esso stabilisce anche che, “senza pregiudizio di [tale] obiettivo, … il SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea”. In base all’articolo 3, l’Unione “si adopera per… un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e a un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”.

Ovviamente, non si può avere un’economia a zero emissioni senza operare profondi cambiamenti a livello strutturale. In questo caso, la crisi legata al Covid-19 ci ha costretti a fare i conti con la realtà. Mentre il Fondo monetario internazionale stima che la pandemia determinerà un calo del Pil mondiale pari al 4,9% quest’anno, l’Agenzia internazionale per l’energia prevede una riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica pari all’8%. Ma un abbattimento delle emissioni di questa portata dovrebbe verificarsi ogni anno da qui al 2030 se vogliamo avere una chance di mantenere l’aumento delle temperature medie entro 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali.

Al di là del costo umano, la recessione mondiale ha gravato pesantemente sulle finanze pubbliche, mettendo a repentaglio il percorso educativo dei giovani, come anche le conquiste fatte dalle donne e dai paesi in via di sviluppo negli ultimi decenni. Il risultato è che il cambiamento climatico non può essere affrontato solo riducendo l’attività economica, bensì anche rinnovando i sistemi produttivi attuali. L’unico modo per arrivare a zero emissioni nette entro il 2050 è trasformare la nostra modalità di produrre, trasportare e consumare.

Uno dei modi più efficaci per riuscirvi – e forse anche l’unico – è quello di aumentare il prezzo del carbonio accelerando, al contempo, il passo dell’innovazione tecnologica. Tale approccio, però, causerebbe inevitabilmente degli shock significativi dal lato dell’offerta. Il costo dei fattori di produzione, specialmente l’energia, diventerebbe più volatile in concomitanza con l’aumento del prezzo del carbonio e la graduale sostituzione dei combustibili fossili con fonti rinnovabili. E, oltre all’energia, i trasporti e l’agricoltura sarebbero anch’essi soggetti a cambiamenti enormi e potenzialmente dirompenti per quanto concerne i prezzi relativi.

Qualunque sia la politica monetaria scelta dalle banche centrali, essa dovrà essere in grado di assecondare gli enormi cambiamenti strutturali e gli effetti sui prezzi relativi introdotti dalla decarbonizzazione. Poiché non è possibile mantenere un tasso di incremento costante per tutti i prezzi, la questione per i responsabili delle politiche monetarie sarà quale indice dei prezzi stabilizzare.

In base al quadro attuale, la Bce controlla l’inflazione della zona euro attraverso l’Indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC). Tale indice, però, comprende i prezzi dell’energia e, pertanto, mal si presta alla sfida della decarbonizzazione. Poiché l’inflazione dei prezzi del carbonio è stata progettata dai politici europei, la Bce non dovrebbe cercare di far scendere altri prezzi inclusi nello IAPC quando il prezzo relativo dell’energia aumenta perché ciò darebbe adito a distorsioni anche maggiori.

L’inevitabile conclusione, pertanto, è che la Bce dovrà abbandonare lo IAPC e utilizzare indici di inflazione core [1] che escludono i prezzi dell’energia e dei beni alimentari. Il motivo non è solo che l’inflazione core è un indicatore più affidabile della componente a bassa frequenza dell’inflazione, ma anche che i responsabili delle politiche monetarie avranno necessità di distinguere tra variazioni di prezzo che avvengono per buoni motivi (in conseguenza di cambiamenti strutturali auspicabili) e variazioni di prezzo che segnalano uno squilibrio temporaneo tra offerta e domanda. La Bce dovrebbe cercare di ridurre al minimo solo la seconda categoria.

A volte, è vero, si sente dire che le banche centrali dovrebbero puntare su indici dei prezzi al consumo come lo IAPC perché riflettono meglio il potere d’acquisto e rendono le decisioni politiche più facili da spiegare. Tuttavia, alcuni sondaggi recenti mostrano che già il quadro attuale non è ben compreso dalla collettività.

Certamente, le banche centrali devono migliorare le loro politiche di comunicazione. Ma non è scontato che scegliere un indice dei prezzi core che sia stato epurato dei prezzi dell’energia sarebbe più problematico rispetto all’approccio attuale in termini di comunicazione con il pubblico. E dovrebbe esserlo ancor meno per esperti che seguono da vicino le questioni di politica monetaria.

Oltre a cambiare il suo target dei prezzi, la Bce potrebbe anche considerare delle riforme per rendere il proprio assetto operativo più resistente agli shock dal lato dell’offerta. Una possibilità è quella di puntare a un percorso per il Pil nominale [2], così che gli shock cost-push [3] accompagnati da rallentamenti dell’economia non causino aumenti dei tassi di interesse indesiderati. In un contesto post pandemico in cui i livelli nominali del debito resteranno elevati a lungo, sarebbe problematico dover inasprire la politica monetaria solo perché uno shock negativo dal lato dell’offerta ha spinto l’inflazione sopra il 2%. Se la crescita del Pil reale (al netto dell’inflazione) fosse contenuta, l’inasprimento monetario potrebbe destabilizzare le dinamiche del debito e produrre conseguenze drammatiche.

Al contrario, in un quadro che punti sul Pil nominale e regole fiscali credibili per l’eurozona, la Bce si troverebbe nella posizione migliore per presiedere a una progressiva e ordinata diminuzione del rapporto debito-Pil, mentre la stabilità dei prezzi verrebbe garantita in un orizzonte di medio termine.

In ogni caso, in previsione degli importanti cambiamenti strutturali che si prospettano, il primo compito della Bce è evidente. Adesso è il momento di sostituire il target dei prezzi con un indice dei prezzi core, così che la sua strategia risulti più consona alla più ampia agenda europea per il clima e la decarbonizzazione.

___________________________________________________________________________

Traduzione di Federica Frasca per Project Syndicate

Hélène Rey è professoressa di Economia alla London Business School e membro dell'Haut Conseil de Stabilité Financière (l'autorità del Ministero dell’Economia francese responsabile della vigilanza sul sistema finanziario, al fine di salvaguardare la stabilità del sistema e la sua capacità di contribuire in modo sostenibile alla crescita economica).



[1] L’inflazione «core» è la misura dell’aumento medio dei prezzi che non tiene conto dei beni che presentano una forte volatilità di prezzo: in particolare quelli dell’energia e degli alimentari. La definizione è utile per mettere in atto le contromisure necessarie a limitarne la crescita entro gli obiettivi prefissati dalle autorità monetarie e dai governi.

[2] Il Pil si distingue in reale e nominale. Il primo esprime un valore reale della produzione di beni e servizi, sterilizzato dall’effetto dell’inflazione e misura la produzione in termini di effettivo potere d'acquisto della collettività.
Il Pil nominale misura invece il valore finale della produzione in un certo periodo ai prezzi di quel periodo, cioè a prezzi correnti.

[3] Uno shock cost-push si verifica quando i prezzi complessivi aumentano (inflazione) a causa dell'aumento dei costi dei salari e delle materie prime.
L'inflazione cost-push può verificarsi quando i maggiori costi di produzione fanno diminuire l'offerta aggregata, cioè la quantità di produzione totale nell'economia.

Post popolari in questo blog

Il pezzo sovraccarico

Eppur si muove