La mia scuola… le mie scuole
di Peggy Sun (riceviamo e volentieri pubblichiamo)
La mia scuola…
Un edificio austero abitato da suore senza età.
Enormi finestre inondavano lunghi e larghi corridoi che sembravano non finire mai.
Cattedre alte di quelle in legno scuro massello da scalare per arrivare in cima.
E poi un suono, sordo e fermo: la fede della suora battuta 3 volte sul legno.
SILENZIO
Eravamo tutte bambine, tutte diverse ma tutte uguali: camicia bianca, gonna blu, golf blu e, soprattutto, il grembiule per rendere ancora meno visibile le nostre forme di giovani donne.
Ricordo il freddo e quell’odore strano, un misto di incenso, polvere, sacrificio e, il venerdì, cavolo lesso.
Le mie scuole…
sono state tante, ho cambiato due volte alle elementari (private di suore), due volte alle medie (la prima privata di suore la seconda pubblica) e due volte alle superiori (entrambe pubbliche).
Ho cambiato compagni, insegnanti, metodi e indirizzi.
Una sola cosa non cambiava mai: IO
“La bambina è distratta e non si concentra”
“La ragazza è intelligente ma non si impegna”
“La studentessa mostra capacità ma non ci mette forza di volontà”
Queste sono alcune delle più lusinghiere definizioni con le quali la scuola aveva deciso di incasellarmi e che, di istituto in istituto, di maestra in professore, di grado in grado hanno segnato per sempre il cammino della mia vita e che hanno costruito un muro impenetrabile tra me, la scuola e mia madre.
Per me c’era sempre un quaderno vuoto, immacolato e spaventoso.
C’erano i libri pieni di segni neri che volevano dirmi qualcosa che io però non capivo.
E c’erano le Maestre e le Insegnanti: non ricordo i loro nomi e neppure come fossero fatte.
Alte, basse, giovani o meno giovani, non saprei dire. Ricordo però nitidamente la mia sagoma dietro la lavagna, oppure fuori dalla classe, in attesa di incontrare la preside per ricevere l’ennesima ramanzina o punizione che poi a casa sarebbe stata quintuplicata.
Venni bocciata in prima elementare, ma quella non fu la prima volta. La vera prima volta è stata quando passai dalla “classe dei buoni” alla “classe dei cattivi” all’asilo… e, quando non bastava la ramanzina, dovevo restare ferma in piedi nel corridoio, con la faccia dentro i cappottini dei miei compagni appesi in fila ordinata, ad aspettare di essere riammessa.
Non ricordo neppure una sola mattina della mia vita, dai 6 ai 19 anni, nella quale andare a scuola non fosse una sofferenza.
Ogni passo era come camminare con catene legate attorno ai calcagni, nelle mani sacchi di pietra e sulle spalle la cartella della croce.
Quando arrivò il fatidico momento della scelta, mia madre decise: l’unica strada praticabile per il futuro era iscrivermi a un Istituto Tecnico per Segretarie d’Azienda. All’epoca era l’alternativa meno umiliante a un qualsiasi altro Liceo che mamma trovò.
Io non volevo andarci, figuriamoci! Avrei dovuto studiare Inglese, Francese e, soprattutto, Stenografia e Dattilografia.
Ore e ore con quelle enormi macchine per scrivere, con il foglio sulle mani per imparare a battere il tasto con la lettera giusta senza guardare, con la prof che teneva in mano un cronometro per verificare in quanto tempo riuscivamo a copiare una lettera commerciale. La velocità, soprattutto.
Stenografia poi era un mostro inattaccabile: tutti quei segni che significavano parole che non riuscivo a leggere neppure quando erano scritte in italiano.
E così feci quello che tutti si aspettavano da me: disturbavo in classe, rispondevo ai professori e innescavo ogni possibile ribellione all’autorità scolastica, fino a fare un gavettone al prof con un preservativo pieno d’acqua che mi valse un eccellente 7 in condotta.
Finalmente mia madre si arrese, ormai troppo stanca per combattere con me, e mi iscrisse all’Istituto Tecnico Professionale per Assistenti all’Infanzia e alle Comunità Infantili.
La vita a quel punto divenne molto più facile; d’altronde nessuno si aspettava, insegnanti compresi, che in quella scuola si potesse imparare qualcosa e quindi che io sapessi declinare i verbi e non parlassi romanesco fu il lasciapassare per superare indenne tutti e quattro gli anni delle superiori.
Alla maturità fui ulteriormente “aiutata” dalla morte prematura di mia madre che quindi mise tutti i professori in condizione di giustificare qualunque mia impreparazione.
L’unico essere umano, l’unica persona che in tutti gli anni della scuola mi ha insegnato qualcosa è stato il Prof. Ciocchetti, Vincenzo Ciocchetti professore di psicologia, non vedente, ma non dalla nascita, che divenne la sola motivazione per alzarmi al mattino.
Le sue lezioni raccontavano storie, stimolavano domande e spesso non ci davano delle risposte belle o preconfezionate, ma ci costringevano ad ascoltare. Ci obbligavano a comprendere.
Ecco, se dovessi sognare il mio IDEALE DI SCUOLA, vorrei tutti i prof come Ciocchetti che non ci poteva guardare negli occhi, ma ci leggeva nell’anima e parlava alle nostre menti.
Non a caso, quando tentai il percorso universitario, decisi di iscrivermi a Psicologia. Forse ero convinta che solo li avrei potuto incontrare tutti i Ciocchetti del mondo. Ovviamente non fu così.
Ho trovato la mia strada, ho seguito la passione che nessuno voleva accettare e il talento che nessuno voleva riconoscere. Oggi, con le mie sole forze, ho un ruolo di responsabilità – ironia del destino – proprio nell’azienda che produce Cultura più grande nel Paese.
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