Il Patto di Stabilità al tempo delle formiche diventate cicale


Trent’anni fa…

Nel febbraio 1992 i dodici Stati membri della Comunità Europea hanno sottoscritto il Trattato sull'Unione europea (TUE), anche noto come Trattato di Maastricht, dalla cittadina olandese dove l’accordo è stato firmato. Il trattato fissava i pilastri su cui doveva fondarsi la costituenda Unione Europea (mercato comune europeo, politica estera e sicurezza comuni, collaborazione reciproca su giustizia e polizia), ma conteneva anche le regole politiche e i parametri economici e sociali necessarie per l'ingresso degli Stati nell’Unione.

Sul piano finanziario si definivano due parametri cui gli Stati aderenti avrebbero dovuto tendere per garantire una situazione del bilancio pubblico sostenibile. I parametri erano:

  • un rapporto ottimale fra debito pubblico e prodotto interno lordo fissato al 60%;
  • un disavanzo pubblico annuale – cioè un’eccedenza di spese rispetto alle entrate, al netto degli interessi pagati per il debito – “tendenzialmente” non superiore al 3%. L’introduzione dell’avverbio consentiva eccezionalmente che in un esercizio finanziario si sforasse tale limite, ma con l’impegno a recuperare lo sforamento negli esercizi successivi.

I primi ministri portoghese e olandese (Cavaco Silva e Lubbers), il ministro degli Esteri tedesco (Genscher) e il presidente della Commissione europea (Delors) festeggiano il raggiunto accordo di Maastricht

Nel trattato si raccomandava inoltre ai Paesi con elevato rapporto debito/PIL di ridurre tale rapporto “in misura sufficiente” e “con ritmo adeguato” fino a raggiungere il rapporto ottimale del 60%, ma senza fissare un parametro preciso.

È solo nel novembre 2011 che un regolamento del Consiglio europeo stabilisce che “il divario tra il livello del debito di un Paese e il riferimento del 60% deve essere ridotto di un ventesimo all'anno”. Questo parametro viene definitivamente incluso nel Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria, noto come Fiscal Compact.

I parametri finanziari fissati a Maastricht e confermati nel Patto di stabilità erano adeguati alla congiuntura economica dell’epoca, nella convinzione che, pur considerando le normali fluttuazioni cicliche, la crescita economica si sarebbe mantenuta stabile. Questo assunto sottovalutava, già allora, il fatto che le economie degli Stati, sia a livello globale che europeo, sarebbero cresciute in modo assai diverso: c’erano economie emergenti, racchiuse sotto l’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che crescevano a tassi molto alti, mentre in Europa c’erano Paesi, successivamente riuniti nell’acronimo PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) con forte indebitamento e problemi economici strutturali – come scarsa competitività delle economie nazionali e alti livelli di disoccupazione - che ne rallentavano la crescita.

Soprattutto, la rigidità dei parametri non contemplava la possibilità di pesanti crisi economiche, come quelle dei debiti sovrani del 2007-08 e dell’emergenza pandemica del 2019-20, e non ne prevedeva gli effetti devastanti sui conti pubblici.

L’Italia, firmataria di tutti i trattati citati e anche del Patto Europlus con il quale s’è impegnata a inserire il principio del pareggio di bilancio in Costituzione, è – fra le maggiori economie europee – la più indebitata: già all’epoca di Maastricht il rapporto debito/PIL superava il cento per cento (105%) e alla vigilia della recente crisi sanitaria ed economica aveva raggiunto il 135%; nel primo trimestre del 2021 ha toccato il picco del 160% per scendere a fine anno a poco meno di 154%, grazie alla iniziale ripresa economica e soprattutto all’abbattimento degli interessi sul debito.


Il Patto messo in crisi… dalle crisi

Ma il fatto nuovo è che le due crisi finanziarie succedutesi negli ultimi anni (quella dei mutui subprime del 2008-09 e quella del 2020-21 dovuta al Covid-19) hanno portato il deficit di molti altri Paesi europei oltre la soglia del 100%: Grecia (197,9%), Portogallo (126,9%), Spagna (119,6%), Francia (115,3%), Belgio (113,9%) e Cipro (107,7%), nonostante nel 2021 una timida ripresa abbia ridotto i deficit pubblici rispetto al catastrofico 2020. Perfino la virtuosa Germania è passata da un rapporto pre-crisi del 58,9% a uno del 72,2%; inoltre – unico Paese della UE – nel primo trimestre 2022 entrerà in recessione tecnica, cioè registrerà per il secondo trimestre consecutivo una riduzione del PIL.


Com’è noto, nel marzo 2020 Ursula von der Leyen ha annunciato il ricorso alle cosiddette “clausole di salvaguardia” (escape clause) per consentire agli Stati membri di spendere denaro per l’emergenza sanitaria ed economica senza che questa spesa pubblica venga conteggiata nel debito pubblico e, quindi, nel rapporto fra debito e PIL. Va precisato, contrariamente a quanto spesso si crede, che il patto di stabilità non è mai stato sospeso, poiché la Commissione europea è stata semplicemente autorizzata dai ministri delle finanze riuniti nel Consiglio "Economia e finanza" (ECOFIN) “a discostarsi temporaneamente dai requisiti di bilancio normalmente applicabili”, ma che “i ministri rimangono pienamente impegnati a rispettare il Patto di stabilità e crescita”. L’ECOFIN aveva inizialmente fissato la scadenza della deroga ai parametri alla fine del 2021, riservandosi una ulteriore decisione a marzo dello stesso anno.

Supponendo che l’emergenza pandemica si stesse esaurendo, i governi degli otto Paesi cosiddetti frugali, nonché i direttori delle loro Banche centrali, facevano pressione per il ripristino del patto a partire da gennaio 2022, ma all’inizio di marzo 2021 la Commissione europea, nonostante i benefici attesi dall’attivazione del Recovery and Resilience Facility (RRF, cioè lo stanziamento per finanziare i PNRR nazionali) suggeriva di non ripetere “gli errori di un decennio fa, ritirando troppo presto il sostegno” all’economia e quindi di mantenere la clausola di salvaguardia anche per il 2022 per consentire l’intervento pubblico nel contrasto alla “pandemia che continuava a danneggiare persone e attività”. L’ECOFIN a metà dello stesso mese recepiva il suggerimento della Commissione ammettendo che “le indicazioni preliminari suggeriscono di continuare ad applicare la clausola di salvaguardia nel 2022 e di disattivarla a partire dal 2023”, ma raccomandava agli Stati membri di adeguare le loro politiche al momento opportuno per garantire la sostenibilità di bilancio a medio.


Un nuovo Patto di stabilità. Ma quale?

Una terza e una quarta ondata pandemica hanno nuovamente messo in crisi il sistema sanitario con ovvie ricadute sociali ed economiche; la BCE ha deciso una graduale riduzione nell’immissione di liquidità nel mercato, riguardante sia il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) che gli altri strumenti di sostegno del sistema creditizio, come i TLRO (finanziamenti agevolati al sistema bancario per stimolare i prestiti privati all’interno dell’economia reale) e l’Asset Purchase Programme (APP, cioè il Quantitative Easing ordinario); nonostante la BCE avesse lasciato i tassi invariati ai minimi storici, lo spread – cioè il differenziale dei tassi dei titoli nazionali rispetto a quelli tedeschi – nei Paesi a forte indebitamento aveva ripreso ad aumentare; infine il raddoppio dell’inflazione rispetto alle attese – dovuto principalmente al vertiginoso aumento dei costi per l’approvvigionamento energetico – aveva rallentato sia il consumo delle famiglie che la produzione industriale, con effetti inevitabili sul PIL. A questo si aggiunga la necessità per tutti i Paesi di un ingente impegno pubblico per finanziare la transizione ecologica e la neutralità climatica entro le scadenze prefissate (2030 e 2050).

Solo a questo punto ci si è resi conto che sarebbe stato impossibile tornare a rispettare i criteri del Patto di Stabilità e Crescita e si è cominciato a discutere di una loro riforma. A questo scopo, la Commissione europea ha indetto una consultazione pubblica, invitando le parti interessate a fornire proposte per poter costruire un consenso sul quadro della governance economica: per l’Unione Europea il potente sostegno fiscale fornito durante la pandemia ha portato a livelli di debito così elevati da rendere ancora più essenziale avere un quadro fiscale trasparente ed efficace.

Uno studio di sei economisti del Meccanismo Europeo di Stabilità (l’ormai noto MES) ha aperto a una modifica del parametro cardine, cioè del rapporto ottimale fra debito pubblico e prodotto interno lordo che potrebbe essere fissato al 100% rispetto al 60% attualmente in vigore.

L’European Fiscal Board (EFB), un comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche, ha proposto invece di rendere flessibile il parametro del 3% per il disavanzo pubblico annuale – come già ricordato, l’eccedenza di spese rispetto alle entrate, al netto degli interessi pagati per il debito – adattandolo alle caratteristiche economiche e al livello di indebitamento di ciascun Paese. L’EFB ha proposto di vincolare la crescita della spesa pubblica di ogni Stato membro a quella del Pil potenziale, calcolato però non più anno per anno, ma con una media decennale, comprendente i quattro anni precedenti e le previsioni per i cinque successivi.

A febbraio 2022, sia il commissario europeo all'Economia, Paolo Gentiloni, che il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, non hanno escluso l'adozione di una Green Golden Rule, cioè l’esclusione degli investimenti per la transizione ecologica – che l’UE calcola in circa 540 miliardi l’anno per il prossimo decennio – dal calcolo del deficit.

Anche il ministro francese dell’Economia e presidente di turno dell’ECOFIN, Bruno Le Maire, ha proposto l’adozione di una golden rule sugli  investimenti “verdi”, incontrando la “non opposizione” del falco ministro delle finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, ma lo “scetticismo” del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz.

Anche il premier Mario Draghi e il presidente francese Emmanuel Macron hanno fatto una loro proposta congiunta di riforma del Patto in un intervento sul Financial Times. Dopo aver ricordato che “i governi dell'UE hanno speso quasi 1,8 miliardi di euro per aiutare famiglie e imprese”, in aggiunta ai 750 milioni del Next Generation EU, i due leader affermano che “non c'è dubbio che dobbiamo ridurre i nostri livelli di indebitamento, ma non possiamo aspettarci di farlo attraverso tasse più alte o tagli insostenibili alla spesa sociale, né possiamo soffocare la crescita attraverso un aggiustamento fiscale non sostenibile.” Quindi propongono, sfruttando anche la Presidenza francese del Consiglio Europeo nel primo semestre, “un nuovo quadro fiscale sensato”, in quanto “le regole fiscali dell'UE devono essere riformate se vogliamo assicurare la ripresa”. Ma in cosa consisterebbe questa riforma? L’articolo non entra nei dettagli, per cui occorre fare riferimento allo studio elaborato da due consiglieri economici di Draghi e Macron, Francesco Giavazzi e Charles-Henri Weymuller, che invece contiene proposte concrete.

Giavazzi e Weymuller propongono la creazione di un’Agenzia europea del debito pubblico la quale emetterebbe titoli europei a basso rischio e basso rendimento che la BCE acquisterebbe girando all’Agenzia in cambio, nell’arco di un quinquennio, “fra un quinto e un terzo del debito pubblico di ciascuno Stato europeo”. L’Agenzia – che potrebbe anche nascere dalla trasformazione del Fondo salva-Stati, cioè del MES riformato nel gennaio 2021 – riacquisterebbe nuovamente i titoli in scadenza, diventando, di fatto, il deposito permanente e a basso costo dei debiti nazionali, restituendo agli Stati indebitati (messi al riparo da speculazioni sui mercati finanziari) capacità di spesa per investimenti. Contestualmente l’Unione Europea dovrebbe avviare una revisione delle regole europee di bilancio, rendendole più realistiche, perché meno ossessionate dai deficit annui, e più trasparenti, perché imperniate su pochi criteri fondamentali.


Il difficile lavoro per conciliare proposte di riforma così distanti è stato completamente azzerato dal radicale cambiamento della situazione internazionale all’alba del 24 febbraio scorso, con l’invasione russa dell’Ucraina. La possibilità di un blocco del flusso di gas e petrolio russo in Occidente come reazione alle sanzioni stabilite dall’Unione europea nei confronti della Russia di Putin ha fatto schizzare sui mercati il prezzo dei prodotti petroliferi.

Ciononostante, la Commissione Europea ha varato un piano per l'indipendenza energetica, REPowerEU, che prevede di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili della Russia di due terzi entro ottobre di quest'anno e di azzerarla entro il 2030.

Questi interventi, sebbene già previsti dal Piano europeo di neutralità ambientale, comporteranno un aumento dei costi dovuto alla necessità di accorciarne i tempi di implementazione e di ottimizzazione dei processi.

Inevitabilmente l’aumento della spesa energetica, diretta o indiretta, nei prossimi anni renderà ancora più urgente una profonda revisione del Patto di Stabilità e Crescita per adeguarlo alla nuova situazione economica.
L’ultima proposta di in ordine di tempo è data dalla mozione di riforma del Patto di Stabilità e Crescita presentata dal Movimento 5 stelle alla Camera dei deputati lo scorso 9 marzo. Il suo scopo è far approvare dal Parlamento un indirizzo comune che l’Italia proporrà al tavolo dell’Unione europea di qui a maggio prossimi. La mozione recepisce gran parte dell’impostazione del REPowerEU e riformula alcune delle proposte fatte da altri nei mesi scorsi: in particolare propone la conferma della clausola di salvaguardia anche per il 2023; l’adozione di una Green Golden Rule; l’istituzione di un Energy Recovery Fund strutturale e permanente, attraverso una nuova emissione di debito comune come già fatto per la Next Generation EU.

È improbabile, anche alla luce dei deludenti risultati del meeting UE a Versailles del 10-11 marzo scorso e del fatto che non se ne è discusso nella riunione del Consiglio Europeo del 24 marzo (tutta dedicata alla questione Ucraina e a come affrontare l’emergenza energetica), che questa proposta, come le precedenti, possa diventare base di discussione europea per una effettiva riforma del Patto: l’opposizione dei Paesi frugali a ogni significativo cambiamento delle regole verosimilmente potrà rendere impossibile l’approvazione della riforma entro il semestre di presidenza della Francia… se si dovesse slittare al secondo semestre, quando la presidenza di turno passerà alla frugale Repubblica ceca, la necessaria, profonda revisione dei regolamenti del Patto di Stabilità potrebbe ridursi a qualche irrisorio ritocco dell’esistente.


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