Quale azione istituzionale per Gaza: il punto della situazione

L'escalation recente del conflitto israelo-palestinese ha generato una delle più vaste ondate di partecipazione civile globale degli ultimi decenni. Delle tante, affollate e splendide manifestazioni a favore del martorizzato popolo palestinese, in giro per il mondo, ci sono foto e testimonianze, a futura memoria della stoltezza dei governanti di oggi rispetto al buon senso delle società che dovrebbero rappresentare. Infatti, alle piazze gremite si è affiancata una risposta istituzionale disomogenea, che vede alcuni governi attivarsi concretamente, mentre altri mantengono un profilo attendista o ambiguo. Analizzare chi ha fatto cosa non è solo un esercizio di cronaca politica, è un modo per capire quanto ancora le istituzioni riescano a riflettere la volontà popolare e rispettare il diritto internazionale.


Riconoscimento dello Stato di Palestina

Ad oggi, sono 147 su 193 gli Stati membri delle Nazioni Unite che riconoscono formalmente la Palestina come Stato sovrano. Nel 2024-25 Messico, Armenia, Slovenia, Irlanda, Norvegia, Spagna, Barbados, Bahamas, Giamaica e Trinidad & Tobago hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. In particolare il 28 maggio 2024, Irlanda, Spagna e Norvegia hanno annunciato congiuntamente il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina, volendo in questo modo rafforzare il loro sostegno alla causa palestinese e provare a limitare la furia israeliana. Pedro Sánchez, primo ministro spagnolo, ha dichiarato: “È un riconoscimento storico che facilita la pace tra israeliani e palestinesi”. Il suo omologo norvegese, Jonas Gahr Støre, ha aggiunto: “Non ci sarà pace in Medio Oriente senza il riconoscimento della Palestina”.

Tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina ha ribadito il pieno sostegno all'ammissione della Palestina come membro a pieno titolo dell'ONU: il ministro degli Esteri Wang Yi ha definito questa azione “una correzione di una prolungata ingiustizia storica.... Chiediamo di accelerare la realizzazione della soluzione dei due Stati e di ammettere la Palestina come membro pieno dell’ONU. ” (18 febbraio 2025) . La Cina ha promosso due risoluzioni ONU (ottobre 2023 e febbraio 2025) per un cessate il fuoco permanente . Tra novembre 2023 e gennaio 2024, Pechino ha imposto una sospensione temporanea delle importazioni di arance e datteri israeliani per ragioni sanitarie. Ha promosso inoltre una “Dichiarazione di Pechino” per mediare tra Hamas e Fatah.

La Russia ha assunto un ruolo attivo nei forum internazionali, proponendo proprie bozze di risoluzione e opponendosi a testi che non includessero un cessate il fuoco immediato. Mosca ha sospeso i colloqui bilaterali su progetti energetici con Israele e ha richiamato l’ambasciatore israeliano più volte, in segno di protesta. In un gesto di solidarietà umanitaria, la Russia ha inviato 240 tonnellate di aiuti via Egitto. Il ministro Sergej Lavrov ha dichiarato: «Sosteniamo un cessate il fuoco permanente e onnicomprensivo… distruggere Gaza e cacciarne 2 milioni di abitanti sarebbe una catastrofe per decenni» (28 ottobre 2023) . La Russia ha rafforzato i suoi contatti diplomatici con Hamas, intensificandoli soprattutto dopo l’escalation del conflitto israelo-palestinese; Mosca ha ospitato più volte delegazioni ufficiali del movimento palestinese, dove si è discusso di cessate il fuoco, crisi umanitaria e rilascio degli ostaggi, compresi cittadini russi. Ha sostenuto pubblicamente pause umanitarie, come quella di novembre 2023, e ha cercato di promuovere l’unità tra le fazioni palestinesi, ospitando un vertice inter-palestinese a Mosca nel febbraio 2024. Ha inoltre mantenuto colloqui a Doha con Hamas e proseguito le trattative nel 2025 con un focus su ricostruzione e aiuti umanitari a Gaza. In totale, si contano almeno cinque incontri diretti.

Una delle azioni più significative intrapresa dal Regno Unito, assieme con Canada, Australia, Nuova Zelanda e Norvegia nel giugno 2025, ha visto imporre sanzioni mirate contro due ministri israeliani (Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir), accusati di incitamento alla violenza e politiche repressive in Cisgiordania. A queste sanzioni si è aggiunta la sospensione dei negoziati commerciali con Israele da parte del Regno Unito. La Francia, pur non adottando sanzioni formali, ha convocato l'ambasciatore israeliano e ha definito il blocco degli aiuti umanitari verso Gaza come “una violazione del diritto internazionale umanitario”.

Sfortunatamente in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il costante veto degli Stati Uniti ha impedito di rendere efficace qualsiasi azione istituzionale di riconoscimento dello Stato di Palestina, di sanzioni contro Israele o anche solo di azioni umanitarie a favore del popolo palestinese a Gaza e Cisgiordania.


Contestazioni ufficiali contro Israele

Il Sudafrica ha assunto un ruolo guida nella contestazione legale delle azioni israeliane: ha intrapreso un’iniziativa legale storica, depositando il 29 dicembre 2023 presso la Corte Internazionale di Giustizia un’azione accusatoria contro Israele per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, ottenendo già il 26 gennaio 2024 misure cautelari e un primo ordine per impedire azioni genocidarie. Ha richiamato l’ambasciatore e sospeso la cooperazione militare e di intelligence a novembre 2023, vietando da aprile 2024 l’importazione di prodotti provenienti dagli insediamenti, definiti “merce di crimini di guerra”. Il presidente Ramaphosa ha sottolineato: «Mai più genocidi: l’ICJ ha riconosciuto che vi è un caso plausibile di genocidio in atto a Gaza» (26 gennaio 2024) . Belize, Irlanda, Egitto e altri hanno notificato interventi a sostegno della causa sudafricana, rafforzando il fronte giuridico che accusa Israele di genocidio.

L’Irlanda inoltre è diventata il primo paese dell'Unione Europea a vietare il commercio con i territori occupati da Israele. Il 27 maggio 2025, il governo irlandese ha presentato un disegno di legge per vietare l'importazione di beni provenienti dagli insediamenti israeliani considerati illegali secondo il diritto internazionale. A questo si aggiunge la decisione del prestigioso Trinity College di Dublino che mercoledì 4 giugno ha dichiarato l’interruzione di tutti i rapporti con Israele in segno di protesta contro le continue violazioni del diritto internazionale e umanitario: è la prima università occidentale a compiere una mossa del genere.

La Svezia pur non adottando sanzioni formali ha denunciato pubblicamente le violazioni israeliane e sta valutando sanzioni autonome contro i coloni violenti.

Il Brasile ha scelto una rottura diplomatica netta nei confronti di Israele: il 20 febbraio 2024 ha richiamato il proprio ambasciatore da Tel Aviv e congelato nuove missioni militari congiunte, ribadendo la propria distanza dalle operazioni israeliane. Nello stesso periodo, il Paese ha votato presso il Consiglio di Sicurezza per un immediato cessate il fuoco e ha esercitato pressione nell’Organizzazione degli Stati Americani e nel Mercosur per imporre un embargo sulle armi verso Israele. Il presidente Lula da Silva ha definito la situazione a Gaza un genocidio, equiparandola al nazismo: «Quello che sta accadendo a Gaza … ricorda ciò che Hitler decise di fare con gli ebrei» (18 febbraio 2024) . Israele ha reagito duramente, dichiarando Lula “persona non grata” e scatenando uno scontro diplomatico di vasta portata.

Nel panorama geopolitico sudamericano, il Cile di Gabriel Boric si è distinto per una dura condanna delle operazioni militari israeliane a Gaza, definite sproporzionate, pur ribadendo il diritto all’esistenza di entrambi gli Stati. Ha richiamato il proprio ambasciatore da Tel Aviv come segnale di protesta. Simile la linea della Colombia guidata da Gustavo Petro, che ha paragonato le azioni israeliane a crimini storici, denunciando un “genocidio” e ritirando l’ambasciatore. Anche la Bolivia ha interrotto i rapporti con Israele, condannando apertamente gli attacchi a Gaza e schierandosi con la causa palestinese. Il Venezuela rappresenta la posizione più radicale: già da anni ha rotto ogni legame con Israele e sostiene pienamente la Palestina, fornendo aiuti umanitari e denunciando “crimini contro l’umanità” da parte del governo israeliano. Caracas ha storicamente riconosciuto la Palestina come Stato sovrano e mantiene relazioni diplomatiche privilegiate con essa.

Nel continente asiatico l’Indonesia ha sempre sostenuto con fermezza la causa palestinese, ritenuta un dovere storico e morale. Pur senza relazioni diplomatiche con Israele, il governo ha ribadito che un riconoscimento potrà avvenire solamente se Israele riconoscerà prima lo Stato palestinese . In un gesto concreto di sostegno, Jakarta ha annunciato l’accoglienza temporanea di 1.000 civili da Gaza, in particolar modo bambini traumatizzati, a condizioni di temporaneità e senza modifiche demografiche strutturali. Il sostegno interno è forte, con manifestazioni pro-Palestina, mentre le autorità religiose (MUI) hanno manifestato riserve sull’evacuazione, per timore di strumentalizzazione.

Il Pakistan sostiene categoricamente la Palestina e rifiuta qualsiasi rapporto diplomatico con Israele finché non verrà realizzato lo Stato palestinese secondo i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Islamabad ha definito le operazioni israeliane a Gaza come “uso indiscriminato della forza” e ha chiesto un “cessate-il-fuoco immediato e incondizionato”, unitamente alla distribuzione senza ostacoli di aiuti umanitari, al ritorno dei profughi e alla punizione dei responsabili . Ha co-patrocinato risoluzioni Onu per applicare l’opinione consultiva della Corte internazionale di giustizia sulle occupazioni israeliane , contestato decisioni israeliane contro UNRWA  e definito le azioni israeliane “genocidio moderno”.

L’India mantiene una posizione ambigua - facendo rientrare la questione mediorientale in un contesto geopolitico più ampio di contrasto con il Pakistan - pur votando a favore di un cessate il fuoco umanitario all’ONU nel 2023, si è astenuta in votazioni più recenti. Ha erogato una donazione da 5 milioni di dollari all’UNRWA e inviato 70 tonnellate di farmaci e tende tramite l’Egitto. Pur senza imporre sanzioni economiche, Nuova Delhi ha congelato nuovi contratti per forniture difensive già in corso. L’ambasciatore Ravindra ha sottolineato: «L’India sostiene da sempre una soluzione a due Stati, che implichi la nascita di uno Stato di Palestina sovrano, vitale e indipendente accanto ad Israele.» (24 ottobre 2023).


Lezioni e limiti del fronte arabo-islamico

Il fronte arabo-islamico fatica a contrastare Israele efficacemente a causa di una combinazione di fattori storici, politici, economici e strategici. Innanzitutto, manca un’unità d’azione: i Paesi arabi sono divisi da rivalità politiche, ideologiche e settarie, così come sono divise le organizzazioni palestinesi (tra cui Hamas e Fatah), indebolendo la resistenza unitaria. Inoltre, Israele ha un enorme vantaggio militare, sostenuto dagli USA, e le passate vittorie in tutte le guerre convenzionali, hanno spinto molti stati arabi a preferire una strategia di pragmatismo, privilegiando stabilità, diplomazia e cooperazione economica. Infine Paesi come Egitto e Giordania dipendono dagli aiuti americani e non hanno grosse capacità di contrasto istituzionale.

Ciò nonostante l'Arabia Saudita ha interrotto definitivamente i negoziati di normalizzazione con Israele (iniziati sotto l'egida degli Accordi di Abramo), dichiarando pubblicamente che non vi saranno relazioni fino alla creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. Ha agito in linea con la posizione dell’OPEC+, rifiutando richieste USA-Israele per una maggiore produzione petrolifera durante la guerra, e istituito un fondo di emergenza di 2 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza. Il principe Mohammed bin Salman ha chiarito: «Il Regno non stabilirà relazioni diplomatiche con Israele fino alla creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est.» (18 settembre 2024) .

L'Egitto ha sostenuto ufficialmente il ricorso sudafricano presso la Corte Internazionale di Giustizia e ha sospeso il transito di gas israeliano verso i terminali di liquefazione di Damietta e Idku per due settimane, riaprendolo solo verso i mercati europei. Ha inoltre minacciato di sospendere il trattato di pace sino-israeliano qualora Israele procedesse con sfollamenti di massa nel Sinai. In quella sede il ministero degli Esteri egiziano ha avvertito: «La decisione d’intervento è dovuta all’espansione delle violazioni israeliane contro i civili di Gaza» (12 maggio 2024) .

Tra i paesi dichiaratamente pro-Palestina emergono Algeria, Tunisia, Sudan e Libia. L’Algeria ha parallelamente impedito al suo Parlamento di concedere lo status di osservatore all’Unione Africana a Israele e ha condotto battaglie diplomatiche al Consiglio di Sicurezza ONU. La Tunisia ha riaffermato il suo “appoggio pieno e incondizionato” al popolo palestinese, con proposte legislative per contrastare la normalizzazione dei rapporti con Israele.

L'Iran, sebbene già storicamente antagonista di Israele, ha intensificato il proprio coinvolgimento, fornendo supporto militare a gruppi armati come Hezbollah e Hamas, imposto un embargo petrolifero verso le società che commerciano con Israele e sostenuto cyber-attacchi contro infrastrutture idriche israeliane, confermati dalla CISA a febbraio 2024. Il consigliere supremo Safavi ha dichiarato: «Sosterremo i combattenti palestinesi fino alla liberazione di Gerusalemme» (7 ottobre 2023) .

Gli Houthi in Yemen hanno iniziato ad attaccare Israele in solidarietà con Gaza, lanciando missili balistici e droni. Queste azioni, iniziate dopo l’offensiva israeliana a Gaza nell’ottobre 2023, hanno anche preso di mira navi commerciali nel Mar Rosso, destabilizzando il traffico marittimo globale. Israele ha risposto con raid aerei in Yemen, colpendo infrastrutture Houthi, ma non ha fermato la loro solidarietà con il popolo palestinese.

Infine, va citata la Turchia, il cui presidente Erdoğan ha condannato duramente le azioni israeliane a Gaza, definendole “genocidio” e interrompendo ogni nuovo commercio con Israele, inclusi acciai e materiali da costruzione (ma mantenendo i contratti in essere, soprattutto quelli energetici), fino a un cessate il fuoco. Ha richiamato l’ambasciatore per consultazioni e promosso sforzi diplomatici per un immediato cessate il fuoco, offrendo la sua mediazione.

Ognuno di questi interventi rappresenta un tassello nel mosaico della risposta globale al conflitto, rendendo evidente come i Paesi del Sud Globale cerchino di assumere un ruolo alternativo nel negoziato internazionale, spesso in contrasto con le linee guida della diplomazia occidentale.



Cosa ancora si potrebbe fare?

La comunità internazionale dispone di diversi strumenti per aumentare la pressione su Israele. Alcuni meccanismi giuridici sono già attivi, ma necessitano di un sostegno politico più ampio per diventare realmente efficaci. Un esempio concreto è l'applicazione delle misure cautelari della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) da parte di altri Stati, che potrebbero tradursi in embarghi mirati o nella sospensione di trattati bilaterali con Israele.

Sul piano delle Nazioni Unite, l'ammissione della Palestina come Stato membro a pieno titolo resta un obiettivo politico fondamentale, seppur largamente simbolico. Questo rappresenterebbe un riconoscimento formale della statualità palestinese e rafforzerebbe la sua posizione negoziale.

Sempre all'interno delle Nazioni Unite, negli anni ’70, il Sudafrica divenne un paria globale. Mentre l’ONU non arrivò mai a un’espulsione formale, l’Assemblea Generale ne sospese la partecipazione attiva nel 1974. Fu un colpo simbolico, ma significativo, accompagnato da sanzioni economiche, boicottaggi sportivi e l’isolamento diplomatico. Quel sistema di pressioni multilaterali, unito alla resistenza interna, accelerò la fine dell’apartheid. Ci si potrebbe ispirare al precedente sudafricano: sanzioni mirate, sospensione di accordi commerciali o addirittura la limitazione dei suoi diritti in seno a organizzazioni internazionali. Ma senza un consenso globale, ogni misura rischia di restare parziale. La lezione del Sudafrica dimostra che il cambiamento richiede una pressione coordinata e costante, sia sul piano istituzionale che della mobilitazione popolare. Oggi, Israele si trova sotto scrutinio per la sua condotta a Gaza, con la Corte Internazionale di Giustizia chiamata a valutare accuse di genocidio. Tuttavia, a differenza del Sudafrica, gode ancora di forti protezioni, soprattutto da parte di Stati Uniti e Unione Europea.

Altre misure concrete includerebbero la sospensione dei trattati di libero scambio con Israele o la revisione degli accordi di cooperazione militare. Queste rappresentano opzioni perfettamente legali secondo il diritto internazionale, ma che molti Stati continuano a evitare per timore di ritorsioni politiche ed economiche, soprattutto da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati.

L’Unione Europea, per esempio, continua ad essere divisa sul rapporto con Israele. È in esame un'iniziativa lanciata da otto ministri degli Esteri – provenienti da Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia – che chiede misure concrete per interrompere il commercio con gli insediamenti israeliani nei territori occupati e garantire che l’Unione si conformi agli obblighi giuridici stabiliti dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG).

Il riferimento è al parere consultivo emesso dalla CIG nel luglio 2024, secondo cui gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati sono illegali secondo il diritto internazionale. La Corte ha inoltre indicato che gli Stati devono astenersi da ogni forma di supporto – diretto o indiretto – al loro mantenimento, incluso il commercio e gli investimenti. L’iniziativa diplomatica arriva a ridosso del Consiglio Affari Esteri dell’UE, tenutosi il 23 giugno a Bruxelles, dove i ministri hanno discusso anche la possibile violazione dell’articolo 2 dell’accordo di associazione UE-Israele, che impone il rispetto dei diritti umani come condizione fondamentale del partenariato. Ad oggi, 17 Stati membri hanno avviato una revisione delle relazioni con Israele per verificare la compatibilità con gli impegni in materia di diritti umani. Tuttavia, l’Unione resta profondamente spaccata. Ma se da un lato 17 paesi sono favorevoli alla sospensione dell’accordo, dall’altro, un gruppo di Stati continua a opporsi a qualsiasi misura restrittiva. La Germania si distingue per il suo approccio cauto, giustificato da una “responsabilità storica” nei confronti di Israele. Anche l’Italia, per voce del ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha ribadito l’importanza del dialogo e della cooperazione. A questi si aggiungono Grecia, Ungheria – che ha persino bloccato l’avvio della revisione – Bulgaria, Croazia, Cipro, Cechia e Lituania. La Commissione Europea, nella riunione del prossimo luglio, sarà chiamata a presentare “proposte concrete” come richiesto nella lettera, ma poiché qualsiasi decisione futura richiederà l’unanimità, diventa difficile, almeno nell’immediato, un’azione coordinata sull’embargo agli insediamenti o la sospensione dell’accordo di associazione.

La questione fondamentale rimane la volontà politica della comunità internazionale. Mentre alcuni paesi del Sud del mondo hanno già adottato posizioni più nette, l'Unione Europea e altre potenze occidentali continuano a mostrare ambiguità e inerzia. Senza un fronte unitario, qualsiasi misura rischia di rimanere parziale e simbolica.

In un mondo che ha saputo imporre sanzioni durissime alla Russia per l'invasione dell'Ucraina, il fatto che non si applichino misure simili di fronte a Gaza rivela una doppia morale e una crisi profonda del diritto internazionale. Lentamente, troppo lentamente, la pressione cresce e sempre più governi iniziano ad ascoltare, speriamo solo si riesca a dare una degna risposta alla tragedia palestinese e che sia un nuovo punto di svolta del diritto internazionale e della convivenza tra popoli e nazioni.

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