Israele: il confine non percepito
Per il diritto internazionale (Quarta Convenzione di Ginevra del 1949), come per quello consuetudinario, il territorio conquistato durante un conflitto armato – indipendentemente se sia stata dichiarata la guerra – va considerato “territorio occupato”. L’occupazione comporta alcuni oneri per l’autorità occupante, come la protezione e la tutela dei beni (che non possono essere distrutti o demoliti se non direttamente utilizzati nel conflitto) e delle persone (che non possono essere deportate, neppure all’interno del territorio, se non temporaneamente), l’impossibilità di un’annessione senza un previo accordo internazionale, il divieto di installazioni o infrastrutture che non siano temporanee.
Sulla base di questa definizione, accettata dalla Corte Internazionale di Giustizia e dalla maggior parte dei Paesi membri dell’ONU, le Nazioni Unite hanno più volte raccomandato il ritiro di Israele dalla Cisgiordania e denunciato l'illegalità degli insediamenti.
Israele – com’è noto – non ha mai accolto queste raccomandazioni: il solo ritiro del suo esercito è quello fatto nel 2005 dalla Striscia di Gaza; Israele ha annesso sia la striscia di territorio conquistata durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49 sia – con una dichiarazione unilaterale di sovranità del 1980 – Gerusalemme Est e le Alture del Golan, mentre la politica degli insediamenti di coloni ebrei è proseguita incessantemente sia con governi guidati dal Labour che dal Likud.
Il motivo del rifiuto di Israele di adeguarsi al diritto internazionale è principalmente dovuto al fatto che considera la Giudea e Samaria – Yehuda veShomron, come gli ebrei chiamano la Cisgiordania – facente parte “da sempre” della Terra di Israele (Eretz Yisrael).
Da alcuni anni Israele ha anche proposto un’interpretazione diversa del diritto internazionale: i territori non sarebbero occupati, bensì “contesi”, in quanto Gerusalemme, la Cisgiordania e Gaza non facevano parte di alcuna entità nazionale nel 1967, quando furono conquistati dopo la Guerra dei Sei giorni; anzi i territori furono “liberati” dall’illegale occupazione giordana ed egiziana. Quando un territorio è “conteso” vanno confrontate le pretese dei due popoli contendenti – ebrei e palestinesi – e Israele ritiene di avere il diritto legale e storico di rivendicarne la sovranità rispetto ai palestinesi, cui non si riconosce neppure la connotazione di popolo. Ne consegue che gli insediamenti di coloni non sono illegali, non esistendo l’occupazione israeliana.
Questa narrazione, abbastanza forzata sia sul piano giuridico che storico, è stata fatta propria dall’amministrazione Trump nel 2019, quando il Segretario di Stato (ministro degli esteri) Mike Pompeo ha affermato che “la creazione di insediamenti civili israeliani in Cisgiordania non è di per sé incompatibile con il diritto internazionale”.
In virtù di questa interpretazione del diritto, in tutta la zona dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano lo Stato israeliano usa leggi, prassi e violenza pensate per affermare la supremazia di un gruppo – la popolazione ebraica – su un altro – i palestinesi. Una strategia fondamentale per raggiungere questo obiettivo è progettare spazi diversificati per i due gruppi.
I cittadini ebrei vivono come se tutta la zona fosse un unico spazio (esclusa la Striscia di Gaza). La Linea Verde, cioè la linea fissata dai belligeranti nell’armistizio del 1949 e trasformata per la quasi totalità in un muro che protegge il territorio di Israele, non significa quasi nulla per loro: sia che vivano a ovest del confine, dentro i territori dove Israele è sovrano, sia che vivano ad est della linea, nelle colonie formalmente non annesse a Israele, è irrilevante per quanto concerne i loro diritti o il loro status. Invece, per i palestinesi, dove vivono è di cruciale importanza. Israele ha diviso l’area in diverse unità territoriali che definisce e amministra in modo diverso, concedendo ai palestinesi diversi diritti in ognuna di esse. Questa divisione vale solamente per i palestinesi. Lo spazio geografico, che è contiguo per i cittadini ebrei, è un mosaico frammentato per i palestinesi.
Gli insediamenti e gli espropri
Nei settant’anni di occupazione Israele ha edificato, in violazione del diritto internazionale, circa duecentocinquanta insediamenti di coloni in Cisgiordania, alcuni di piccole dimensioni, altre vere e proprie città con più di venticinquemila abitanti. Complessivamente vi vivono circa settecento mila ebrei, di cui duecento mila nella sola Gerusalemme Est, territorio occupato dopo la guerra dei Sei giorni e arbitrariamente annesso da Israele nel 1980 a “Gerusalemme unita e indivisibile”.
Circa centoventi insediamenti sono avamposti costruiti dai coloni senza l’autorizzazione statale, quindi illegali anche per la legge israeliana; ciononostante anche gli avamposti vengono collegati con strade agli altri insediamenti, collegati alla rete elettrica e idrica, presidiati da un distaccamento dell’esercito che li difende dalle proteste dei palestinesi provenienti dai villaggi vicini, cui l’avamposto impedisce l’accesso ai campi e agli uliveti da loro coltivati.
Anche quando un avamposto viene sgombrato in esecuzione di una decisione del tribunale – come è accaduto recentemente per quello di Evyatar, dove i coloni hanno accettato di andarsene - gli edifici e le infrastrutture costruite, nonché il presidio dell’esercito, rimangono in vista di un futuro ritorno dei coloni.
Per trasformare in “terra dello Stato” buona parte dei territori occupati, cioè in pratica espropriarli ai proprietari palestinesi, Israele ha rispolverato una legge ottomana del 1870 che consentiva l’esproprio di qualsiasi terreno che non fosse “considerato privato” o non fosse stato coltivato nel corso degli ultimi tre anni (anche se l’accesso ai terreni coltivati dai palestinesi era loro precluso dalle recinzioni e dai posti di blocco dell’esercito israeliano).
La porzione di territorio requisito con questa acrobazia legale è molto maggiore (centotrenta mila ettari) di quella occupata dalle abitazioni dei coloni (seimila ettari); infatti occorre considerare l’esproprio di terra per:
- la realizzazione delle infrastrutture e della relativa zona di sicurezza il cui accesso è vietato ai palestinesi;
- l’edificazione del muro di separazione, ufficialmente costruito per difendere i confini di Israele precedenti l’occupazione del 1967 (la cosiddetta “linea verde”), ma in molti tratti realizzato all’interno del territorio cisgiordano;
- le venti zone industriali (3.400 ettari) e i terreni coltivati dai coloni (9.300 ettari):
- il sequestro “per ragioni di sicurezza” della più importante cava di Beit Fajar, nota come la “città della pietra” e che dava lavoro a tremilacinquecento palestinesi, e la contestuale concessione ai coloni di aprire undici nuove cave.
Sebbene da qualche anno, grazie anche alle pressioni internazionali, vengano realizzati pochi nuovi insediamenti, sono invece frequenti le autorizzazioni governative a estendere quelli esistenti: il 24 ottobre scorso il Ministero per l’Edilizia e gli Alloggi ha autorizzato l’edificazione di 1.355 nuove unità abitative negli insediamenti esistenti e programmato di autorizzarne altre 2.862 nelle prossime settimane, con l’obiettivo di “raddoppiare la popolazione ebraica nella Valle del Giordano entro il 2026”. Gran parte delle nuove abitazioni è destinata agli insediamenti che circondano a est il quartiere arabo di Gerusalemme (Pisgat Zeev, Ramat Shlomo e Har Homa), soprattutto di espandere quello di Atarot, la cui strada di accesso – ovviamente recintata – lambisce la periferia di Gerusalemme Est, e di collegare i due insediamenti più estesi della zona (Kfar Adumim e Maale Adumim) in modo da separare fisicamente il quartiere arabo dal resto della Cisgiordania.
All’espansione dei coloni ebrei in Cisgiordania corrispondono:
- le restrizioni imposte ai palestinesi nella città o nei quartieri da loro abitati che, anche solo per erigere un muretto di cinta, devono chiedere l’autorizzazione alle autorità occupanti;
- la sistematica distruzione degli accampamenti dei pastori nomadi palestinesi, in quanto l’area incolta da sempre adibita al pascolo di capre e pecore è stato quasi interamente destinata ad area di “esercitazioni di tiro” dell’esercito israeliano (IDF);
- la demolizione degli edifici costruiti senza le necessarie autorizzazioni, quasi impossibili da ottenere per i palestinesi: l’ultimo caso ha riguardato addirittura una moschea nella città di Duma. Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), nei primi sette mesi di quest'anno, Israele ha demolito per questo motivo 291 case palestinesi e 130 strutture umanitarie in Cisgiordania, sfollando 592 persone, di cui 320 bambini;
- la discussa arma di deterrenza del terrorismo che consiste nella demolizione dell’abitazione dei familiari di un presunto terrorista, arrestato o ucciso a seguito di un’aggressione armata contro un civile o un soldato israeliano;
- il sequestro, soprattutto a Gerusalemme Est, di abitazioni palestinesi per assegnarle a famiglie ebree, con conseguente sfratto dei legittimi proprietari arabi. Anche in questo caso si è rispolverata una legge ottomana del XIX secolo che consente a un cittadino di rivendicare la proprietà di un terreno su cui successivamente sia stato eretto un edificio e, contestualmente, di acquisire anche la proprietà del fabbricato.
Sfratti e demolizioni a Gerusalemme Est
Quest’ultima modalità è salita agli onori della cronaca con il caso del quartiere gerosolimitano di Sheikh Jarrah dove abitano 24 famiglie discendenti dei profughi cacciati dalle loro case dopo la guerra arabo-israeliana del 1948.
Si tratta solo di uno degli ultimi episodi di sfratto assai frequenti, così come le demolizioni di abitazioni costruite dai palestinesi senza il permesso dell’autorità israeliana, a Gerusalemme Est. Un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati (OCHOA-oPt), benché del 2009, ne restituisce una fotografia assai precisa.
Nonostante gli insediamenti israeliani si siano moltiplicati negli ultimi quarant’anni, gli abitanti di Gerusalemme Est sono ancora in maggioranza palestinesi (56%). Secondo il rapporto delle Nazioni Unite alle abitazioni palestinesi è assegnato solo il 13% dei settanta chilometri quadrati della parte orientale della città; lo spazio espropriato da Israele ai proprietari arabi e assegnato alle abitazioni ebree è del 35%, cui si aggiunge il 22% di aree verdi e infrastrutture pubbliche (strade, scuole, ecc.) prevalentemente situate nei quartieri ebrei. Nel restante 30%, pari a oltre 20 kmq, sono ancora mancanti i servizi essenziali (viabilità, fornitura idrica ed energetica, trattamento delle acque reflue) e quindi l’area è considerata non edificabile. Ciononostante – il dato è del 2009, ma ancora attuale – circa sessantamila palestinesi (che non trovano alloggio nella densamente abitata zona palestinese) vi vivono in abitazioni costruite senza il necessario permesso dell’autorità israeliana. Gli abitanti sono costretti a pagare periodicamente una sanzione comminata per l’abitazione “abusiva”, in attesa dell’inevitabile sfratto e demolizione della casa, i cui costi sono loro addebitati dall’amministrazione comunale.
Va da sé che le famiglie sfrattate cercano di costruire una nuova casa sempre nella stessa area. Nonostante i costi per multe, demolizione e costruzione di una nuova abitazione, infatti per i palestinesi questa soluzione è una via obbligata: i permessi non vengono rilasciati quasi mai ai palestinesi, neppure nella zona loro assegnata, e comunque hanno un costo inavvicinabile (per un’abitazione di cento metri quadri su un terreno di cinquecento metri quadri il permesso costa circa 74mila shekel, cioè quasi 21mila euro).
<<< --->>>
Potrebbero anche interessarti:
Israele è lo stato nazionale del (solo) popolo ebraico
Qualcosa sta cambiando in Israele (e non in meglio)
Questione palestinese: la terza soluzione
Una tempesta in un… barattolo di gelato
“L’accordo del secolo”: come i media globali hanno messo a tacere i palestinesi
Il tradimento arabo della Palestina